- Di tutto il segmento di Berlusconeide andato in scena la settimana scorsa, la frase che mi ha dato più da pensare non è sua: è di quel deputato di Forza Italia che, mentre Berlusconi cominciava a spiegare com’erano andate e come vanno secondo lui le cose in Ucraina, ha avvisato «non è il caso, presidente, ci sono le finestre aperte».
- Se fosse la luciferina ipotesi che tutto sia stato calcolato per mettere i primi bastoni tra le ruote al futuro governo Meloni, significherebbe una cosa ancora più inquietante: a Forza Italia sanno che, nell’intimità del proprio io, parecchi italiani si sono già stufati di Zelensky e dell’Ucraina.
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L’autocensura è necessaria nelle relazioni umane quando si esce dall’intimità del circolo chiuso e complice, ma la censura degli altri spesso è un alibi per non guardarsi dentro. Uno dei disastri più evidenti provocati dalla società dello spettacolo è il rovesciamento della vergogna in euforia.
Di tutto il segmento di Berlusconeide andato in scena la settimana scorsa, la frase che mi ha dato più da pensare non è sua: è di quel deputato di Forza Italia che, mentre Berlusconi cominciava a spiegare com’erano andate e come vanno secondo lui le cose in Ucraina, ha avvisato «non è il caso, presidente, ci sono le finestre aperte».
Era del tutto ovvio che il pericolo, più che da potenti microfoni direzionali esterni, veniva semmai dai telefonini in tasca ai presenti; quindi la frase aveva il senso di “certe cose diciamocele tra noi, a porte e finestre chiuse”.
Era, per così dire, una rivendicazione di intimità: quella particolare intimità che si crea tra un leader dallo spropositato narcisismo e riconosciuta generosità da una parte, e dall’altra i seguaci che gli vogliono bene e si sentono in dovere di proteggerne il declino senile.
Se non ci fosse stato il tradimento (che invece c’è stato), tutto si sarebbe consumato in un clima di goliardica e ordinaria piaggeria, in cui il capo avrebbe ingenuamente dimostrato di saperla lunga grazie ai suoi supremi rapporti personali e i seguaci avrebbero finto di credergli con entusiasmo (applaudendo come ridono alle sue barzellette stantie) – salvo poi riportare all’esterno quel che sarebbe stato opportuno dire.
Se poi fosse vera l’altra più luciferina ipotesi, che tutto sia stato calcolato per mettere i primi bastoni tra le ruote al futuro governo Meloni, significherebbe una cosa ancora più inquietante: a Forza Italia sanno che, nell’intimità del proprio io, parecchi italiani si sono già stufati di Zelensky e dell’Ucraina – l’eroismo fa un gran bel vedere da lontano ma se io devo stare al freddo per la loro ostinazione e se l’inflazione mi strozza, beh, si rassegnino e facciano un qualunque straccio di pace.
Coscienza individuale
Sartre, da qualche parte nei suoi scritti, propone alla coscienza individuale un semplice gioco: se tu fossi certo, premendo un bottone, di diventare di colpo molto ricco con la sola controindicazione che nello stesso tempo in Cina morirebbe un cinese sconosciuto, e se tu fossi certo che nessuno mai, né in presente né in futuro, potrebbe risalire alla tua responsabilità, lo premeresti quel bottone?
La coscienza individuale è il vero luogo dell’intimità più terribile, quello in cui si fa più drammatico il divario tra desiderio e principio morale, tra ciò che si può e ciò che non si può ammettere, perfino a sé stessi.
La ricchezza ottenuta premendo quel bottone, quanto sarebbe avvelenata dal saperti colpevole di un omicidio remoto, senza conseguenze, quasi irreale?
Potresti goderti la vita sguazzando nella rimozione privata e nell’ipocrisia pubblica? L’ipocrisia, già lo scriveva La Rochefoucauld, è un omaggio che il vizio rende alla virtù – tu lo sai che cosa è il male, tant’è vero che senti il bisogno di negarlo pur commettendolo.
Dici in pubblico quel che credi sia appropriato mostrandoti il contrario di quel che sei, mentre ti sfoghi in quell’intimità che soltanto i raggi X della letteratura possono ritrarre (Molière quasi negli stessi anni inventava Tartuffe).
L’intimità tra un leader e i suoi seguaci, e il segreto inviolabile della coscienza individuale, sono forse i due poli estremi, in mezzo ci stanno molte intimità intermedie: c’è quella della famiglia, quella tra amici stretti, quella tra appartenenti allo stesso ufficio o reparto, o a un medesimo gruppo WhatsApp, o alla stessa echo chamber costituita da un giornale o da un social di riferimento.
Vergogna
Quante chiacchiere nel chiuso di una stanza, quante telefonate, se intercettate e rese di pubblico dominio, provocherebbero vergogna in chi si è lasciato andare all’espressione verbale di ciò che pensa o prova nel proprio foro interiore?
La vergogna è un meccanismo interessante, segnala la distanza tra desideri e affetti, tra sincerità e convenienze, tra istinto e postura; l’autocensura è la sua mano armata e la censura la sua ratificazione sociale.
Il nodo cruciale è quale autorità sentenzi o faccia maturare la vergogna, e chi abbia il diritto di censurare che cosa. Ci sono una vergogna buona e una cattiva, dipende se a dettarla è un genuino impulso morale o la genuflessione al conformismo.
(Quando l’intimità è quella tra gli aderenti a un movimento politico, al posto della vergogna c’è la militanza). L’ideale della parresia, cioè dire sempre tutto anche quando è inopportuno, appartiene ai bambini, ai pazzi e ai santi – il resto è mediazione.
L’autocensura è necessaria nelle relazioni umane quando si esce dall’intimità del circolo chiuso e complice, ma la censura degli altri spesso è un alibi per non guardarsi dentro.
Uno dei disastri più evidenti provocati dalla società dello spettacolo è il rovesciamento della vergogna in euforia; la folla ha scoperto che spararla grossa è uno strumento per uscire dall’anonimato, o per restare anonimi eccitandosi al casino. Nel trash televisivo si invitano i concorrenti a “creare dinamiche” anche sostenendo l’insostenibile e raccontando i panni sporchi, il terrapiattista convinto troverà sempre una telecamera golosa di dargli visibilità.
Il politico è personale
Ma le disfunzioni del sistema, o le sue complementari esuberanze, sono i paradossi che confermano la regola: normalmente i rapporti umani (e quelli politici che ne sono l’esito istituzionale) si fondano su un equilibrio regolato di libertà d’espressione e divieti dettati dal bisogno identitario.
Se il personale è politico, pure il politico è personale, e i giudizi politici devono fare i conti col nervosismo delle coscienze (non solo dei politici di professione, come dovrebbe essere ovvio, ma dei cittadini tutti in quanto politicamente schierati).
La prima cosa che un cittadino dovrebbe fare, credo, è tenere un grafico della propria vergogna, di quanto varia a seconda dei temi affrontati; quanti sono i pensieri antisociali, egoisti, perversi, di cui io stesso mi vergogno e che mai esprimerei in pubblico?
Si infittiscono (o invece si riducono quasi a nulla) quando parlo di migranti, o di gender theory, o di fisco, o di guerra, o di democrazia? Quanti sono i “no” che mi impongo (se le finestre sono aperte) e quanti ne vorrei imporre al mio gruppo sociale di riferimento?
Senso morale o ideologia
E qui viene la domanda più difficile: le censure che applico provengono davvero dal mio senso morale o echeggiano giudizi già formati, ideologie che condivido per comodità?
A destra come a sinistra ci sono individui che su alcuni temi la penserebbero come la parte avversa, ma non lo dicono per non essere “strumentalizzati” (non lo dicono in pubblico, almeno).
Perché bisogna mostrarsi compatti. Certo la compattezza è un valore quando si scende in battaglia, e troppi distinguo sono segno di vigliaccheria se non di diserzione.
Ma quando la battaglia si prospetta lunga, e non è sicuro che la posta in gioco sia quella che appare al momento, forse un esame di coscienza capace di riconoscere alcune ragioni dell’altro come nostre ragioni non dette (trasformando la vergogna in onestà intellettuale) aiuta a smascherare i fanatici dal fiato corto.
Le convinzioni profonde, sia a destra che a sinistra, sono quelle che hanno più probabilità di durare; non il tifo da stadio, non lo spirito di rivincita, non il marranismo astuto, non l’allarme pregiudiziale.
Anche perché, se vogliamo continuare la metafora bellica, il nemico più pericoloso non è quello in prima linea. La politica politicante è solo una parte delle emozioni civili, e sia benvenuta la recente tornata elettorale che l’ha fatta risorgere; ma non si può dimenticare che fino all’altro ieri l’emozione predominante tra i cittadini italiani era un desolato senso di impotenza.
La velocità della tecnologia da una parte, l’impressione dall’altra che siano arrivate al pettine mutazioni di lungo periodo, causano un tempo sospeso che è radice di smarrimento. Le ragioni per non spingere il bottone e non uccidere il nostro cinese si sono fatte vaghe, contraddittorie, spesso eterodirette.
Di qui la voglia diffusa di astenersi, di tirarsi fuori, di qui l’impressione che non sia mai quello il punto. Nei regimi autocratici le cose importanti non si possono dire; noi potremmo dirle ma non ci vengono in mente.
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