- Negli anni Venti, Giorgio de Chirico fu rapito per qualche tempo da una specialissima iconografia: piccoli consessi di poltrone, seggiole, guardaroba e spalliere di letti che posano come anchilosati personaggi umani sulla scena di un teatro a cielo aperto. Riprendendo questo motivo pittorico quarant’anni dopo, introdusse nelle sue valli mobili non singolari, condivisibili, doppi, e in particolare un divano.
- Prima di scrivere queste righe mi ero convinto, senza ragionarci seriamente, che la parola “divano” dovesse essere il risultato di una duplicazione del posto a sedere: di-vano, due vani, doppio spazio in cui possono accomodarsi due persone invece che l’unica ospitabile dal vano singolo della poltrona solitaria. È un’etimologia falsa, ma che mi aiuta a pensare al divano come spazio condiviso dell’intimità tra maschi.
- Mi sembra tipico della socializzazione maschile lo sviluppo della capacità di dialogare, di farsi compagnia, senza guardarsi negli occhi, come si fa sbracandosi sul divano.
Nei tardi anni Venti, nell’ambito di uno dei suoi incantesimi pittorici preferiti (quello di scambiare di posto interno ed esterno, aperto e chiuso, paesaggio e cameretta), Giorgio de Chirico fu rapito per qualche tempo da una specialissima iconografia. Invece di popolare le stanze d’alberi, rovine e ruscelli, o di accatastarci dentro oggetti incongruamente architettonici e brani di cielo come aveva già fatto a Ferrara durante la grande guerra, cominciò a rappresentare radure deserte, spesso punteggiate in lontananza da una o due rovine di templi antichi, e a inscenare al loro centro, sull’assito di una breve parentesi di pavimento in legno, lo sbalorditivo incontro silenzioso di alcuni elementi d’arredo.
In questi quadri, noti come la serie dei “mobili nella valle”, piccoli consessi di poltrone, seggiole, guardaroba e spalliere di letti posano come anchilosati personaggi umani sulla scena di un teatro a cielo aperto. Pare che simili visioni quotidiane e straordinarie siano state suggerite a de Chirico dall’esperienza d’incontrare mobilio abbandonato sui marciapiedi delle grandi città, nella stagione in cui tutti traslocano, o forse dal ricordo di una notte d’infanzia trascorsa all’aperto a causa di un terremoto in Tessaglia.
A me ricordano invece i mobili che abitano il mondo di là dallo specchio in un coevo racconto per bambini di Massimo Bontempelli, a sua volta ispirato, direi, dalla valle di oggetti perduti sulla Terra che Astolfo deve esplorare sulla luna, nel Furioso di Ariosto, per recuperare l’ampolla col senno di Orlando. In ogni caso, si tratta invariabilmente di ritratti di gruppo d’individui inanimati: la sedia dialoga con la poltrona, la testiera si appoggia alla cassettiera, l’armadio guarda la credenza. Solo rispolverando questo tema pittorico da vecchio, quarant’anni dopo, de Chirico manifesterà nelle sue valli mobili non singolari, condivisibili, doppi. In particolare, un divano.
Dogane e tv
Prima di scrivere queste righe mi ero convinto, senza ragionarci seriamente, che la parola “divano” dovesse essere il risultato di una duplicazione del posto a sedere: di-vano, due vani, doppio spazio in cui possono accomodarsi due persone invece che l’unica ospitabile dal vano singolo della poltrona solitaria. Non è vero affatto: la radice è turca e affonda nell’arabo dīwān, di origine persiana, che ha prodotto anche la parola “dogana” in italiano.
Il senso storico, tuttavia, è simile a quello che avevo maccheronicamente immaginato: negli uffici doganali della Spagna e dell’Africa settentrionale l’unico arredamento era appunto un sedile per più persone, che solo entrando nei salotti delle dimore private avrebbe assunto le forme della poltrona, estendendole per accogliere, confortevolmente, più di un corpo seduto.
Non so se il divano potesse essere un protagonista nell’arredamento delle case greche e delle camere ammobiliate parigine che de Chirico abitò in gioventù. Di certo lo era nella residenza romana da cui lo dipinse più tardi, sperduto nella valle assieme a un letto a due piazze e a una cassettiera larga, per due.
Nel tardo Novecento, d’altronde, il divano ha conquistato il centro di ogni platonico salotto occidentale di classe media, capace com’è di ospitare l’intera famiglia nucleare che ne doveva essere l’irriducibile unità sociale. È diventato l’interlocutore essenziale della televisione, che alla fine del secolo ci si è specchiata di rimando: i Simpson ci guardavano, negli anni Novanta, attraverso lo schermo, immaginandoci seduti sul divano a guardar loro seduti sul divano; la copertina di Superwoobinda di Aldo Nove riprendeva l’illustrazione di un occhio che sporge dal televisore verso un occhio emergente dal divano di fronte. Per chiarire che gli eponimi amici di Friends rappresentavano un nuovo modello televisivo di famiglia non più di sangue, la sigla della serie li adagiava su un divano all’aperto, versione notturna e patinata di quello meridiano, olio su tela, di de Chirico.
Divanità maschile
Non mi interessa, tuttavia, ragionare sul divano formato famiglia. Sul divano patriarcale, trono condiviso il cui scettro è il telecomando, o su quello degli amari sonni solitari, terra d’esilio del marito quando il letto matrimoniale si fa inospitale a causa di un litigio. Nè d’altronde indugerò sulle eccitanti scomodità del divano quando ci si arrangia a fare sesso in salotto, o sugli sfacciati squallori dei divani dei film porno – a cancellare i corpi da quei video si rimarrebbe col set di un horror d’inizio millennio, o di un atto unico di Beckett allestito in un teatro off polacco. Vorrei invece pensare al divano dei maschi. A questa imbottita cornice morbidosa di un’omosocialità priva di scopi immediati, rilassata, divorziata dal fisico (metafisica appunto, come la pittura di de Chirico).
Penso insomma non tanto all’aggregante divano su cui ci si affolla a guardare la partita, separandosi magari dal resto della famiglia o del circolo sociale per performare un maschile interesse collettivo (ma in fondo rapinosamente personale) per gli sport, ma al divano della mia originaria etimologia fantastica: quello a due, composto di due vani, di due vuoti da riempire per stare insieme. Se penso a come i corpi occupano i divani nei film e nelle serie mi pare che le ragazze si siedano contravvenendo agli angoli retti del disegno del mobile: gambe incrociate, ginocchia raccolte, torsioni per potersi guardare in faccia: per dialogare resistendo alla direzione verso cui il condiviso schienale orizzontale proietterebbe gli sguardi.
Chi invece adopera il divano con prossemica da maschi vi aderisce completamente, vi sprofonda, magari a gambe larghe con un talismano (una birra, un joystick, una fetta di pizza) tra le mani. Così, pur accomunati da un medesimo ricettacolo d’arredamento, gli abitanti del divano vengono opportunamente divaricati tra loro dalla sua forma. Come allo stadio, come in macchina o sul motorino, come al bancone di un locale in cui non si rimorchia, guardano, soli insieme, nella medesima direzione.
Intimità metafisica
Mi sembra tipico della socializzazione maschile lo sviluppo della capacità di dialogare, di farsi compagnia, senza guardarsi negli occhi. Di condividere, in assenza di attività da compiere insieme, un riposo adiacente, lungo lo stesso piano geometrico. È un’intimità peculiare, remota e presente, analoga all’esperienza collettiva dello spettacolo ma ridotta a un triangolo minimo: io, tu, e quel che si staglia di fronte al divano che morbidamente ci separa dal suolo.
Tale posizione relazionale, che certe cose le ostacola, ha però facilitato per me, in particolare, l’unisono di attenzioni che si devono prestare, con un amico, ai comuni obbiettivi di un videogioco. In quelle immersioni a due (non ho mai giocato, per ragioni anagrafiche, con consolle che consentissero più di due controller) il divano smorza, come dicevo, la fisicità del corpo: chi domina al campetto perde i suoi vantaggi, chi nel mondo fisico è più alto o più prestante si riduce allo stesso spaparanzato abbandono del sodale di fianco.
Ho odiato il divano del mio primo appartamento, a Pisa, non tanto perché era rigido, ma perché aveva una seduta poco profonda, che impediva di affondare nelle viscere del mobile. Associavo quell’ortopedica verticalità al fatto che il padrone di casa, che aveva ammobiliato il monolocale, fosse tedesco. All’acquisto del primo divano scelto espressamente da me, in New Jersey, l’ho voluto profondo e cedevole, capace di ospitare il mio sbracato riposo maschile che, devo dire, si manifesta più assolutamente quando sono in compagnia di un amico e guardiamo insieme un episodio di qualcosa o rispolveriamo antichi giochi ora di nuovo disponibili sulla play station. Evochiamo una divanità da dormitorio, serenamente scomposta, che non ho mai effettivamente vissuto granché da ragazzo, supportati da un complemento d’arredo che resiste a tutto ciò che una famiglia attenta, opportunamente, bandisce dal divano: cibo da asporto, bevande che macchiano, braci fumanti che minacciano di mancare il portacenere.
Il divano medesimo diventa una valle dechirichiana. E se si interrompe la generale norma maschile del guardare nella stessa direzione, lo si fa trasformando in schienale un elemento chiave di quella radura di cuscini: il bracciolo, che si offre alla schiena complicando la geometria divaricante dell’affetto senza smancerie di certe oziose situazioni fraterne.
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