L’mit del Medio Oriente, dove studiano gli ingegneri e dove ha studiato Mohammad Abedini, vanta un’esclusiva: in Iran ci sono più ragazze che ragazzi che studiano nel settore stem, dominato da maschi in tutto il mondo. La Repubblica islamica è un’eccezione
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Quasi due terzi degli studenti universitari in Iran sono ragazze. In piazza per Mahsa Amini c’erano anche aspiranti diplomatiche come Sadira, ingegnere e fisiche aerospaziali: l’Iran ha bisogno dei suoi cervelli e, per determinate posizioni, il governo è costretto a tollerare le ribellioni non più silenziose di alcuni giovani dipendenti per continuare a funzionare.
Vige un doppio regime: se ti incontro nella vita di tutti i giorni mentre fai il tuo mestiere e metti al servizio del paese la tua competenza va tutto bene perché sei un ingranaggio essenziale, ma se ti vedo in piazza mentre protesti e metti in discussione l’ordine delle cose allora diventi un nemico che minaccia la mia esistenza e meriti una reazione violenta.
Tra questi due estremi dello spettro, gli studenti e i lavoratori iraniani passano i loro anni migliori. Assim raggiunge Forouzan nel parco con la pista da skate di Chitgar. È il figlio di un professore universitario famoso e gli manca poco per laurearsi in Ingegneria aerospaziale.
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I pasdaran hanno un’attenzione speciale nei confronti di quella facoltà e dei suoi studenti con i voti più alti: Assim è già stato selezionato e inserito quasi senza essere consultato in un programma sperimentale dell’aeronautica che si occupa di missili. È un programma a cui tiene particolarmente il capo in persona, il generale Amir Ali Hajizadeh, che comanda le Forze aeree dei Guardiani della rivoluzione dal 2009. «Ma io, piuttosto che passare il mio tempo a buttare bombe su giganteschi modellini di siti militari israeliani, scappo».
Assim è un appassionato del settore spaziale privato ed era entusiasta quando, all’inizio della protesta, un suo eroe, Elon Musk, diceva che avrebbe aiutato i manifestanti iraniani ad aggirare la repressione digitale spedendo nel paese centinaia di apparecchi satellitari Starlink, quelli prodotti dalla sua SpaceX che permettono di rimanere connessi a internet nonostante le perturbazioni, in qualsiasi circostanza.
Quattro mesi dopo Assim è deluso: «Rispetto alla funzione che dovevano ricoprire qualcosa è andato storto, i dispositivi sono qui in Iran, ma noi non li abbiamo visti».
Mentre parliamo arriva un annuncio sibillino di Eisa Zarepour, il ministro delle Telecomunicazioni: conferma che gli Starlink sono arrivati nel paese, ma lo dice con un tono affatto preoccupato. «Queste attrezzature sono benvenute, purché rispettino le nostre leggi». Sono quasi mille apparecchi e anche SpaceX ha fatto un comunicato scarno, questa volta senza alcun riferimento alla protesta, per dire che la consegna è avvenuta. «Ci hanno fregato», è la sentenza di Assim.
Forouzan mi ha presentato il suo amico dicendo che frequenta la «fabbrica dei geni», un nome in codice per indicare l’Università Sharif di Teheran. È in centro, un reticolo di edifici e laboratori che si estende tra corso Libertà – l’Azadi dello slogan che si sente in piazza – e la strada a scorrimento veloce a tre corsie che prende il nome dal memoriale della Repubblica, Yadegaran. La Sharif è un’eccellenza, un marchio che chi la frequenta si porta dietro per tutta la vita, un nome che è diventato quasi un modo di dire per indicare un tipo di persona sveglia, emancipata, che studia o ha studiato materie impegnative, che guadagna o guadagnerà piuttosto bene. Delle due donne che conosco che hanno fatto il dottorato alla Sharif, una lavora in una posizione dirigenziale per un colosso del petrolio texano e l’altra è una manager di una delle società di informatica più famose al mondo. Entrambe, due anni dopo la fine degli studi, guadagnavano quasi duecentomila dollari l’anno.
La «fabbrica dei geni» di Teheran non ha i mezzi né i laboratori dell’mit di Boston, ma è l’mit del Medio Oriente. Il politecnico vanta soprattutto un’altra esclusiva: in Iran ci sono più ragazze che ragazzi che studiano nel settore stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics – in pratica le discipline scientifiche e tecnologiche). In Italia gli uomini a laurearsi in queste facoltà sono il 78 per cento e le donne il 22, ma il settore è dominato da maschi in tutto il mondo: il 65 per cento degli studenti stem sono uomini.
La Repubblica islamica è un’eccezione. L’Iran produce molti più giovani ultraqualificati di quelli che la sua economia sclerotizzata riesca ad assorbire. Il governo ne assume qualcuno per poi fargli svolgere mansioni spesso lontane da quelle che sognava quando ha cominciato a studiare, e con un prodotto interno lordo che rinsecchisce anno dopo anno i nuovi posti di lavoro sono comunque pochi. L’esclusione dei giovani dall’economia tradizionale ha creato una massa di persone che non dipende dal governo per pagarsi l’affitto: la generazione che protesta è la stessa che negli ultimi anni aveva separato il proprio destino lavorativo dall’economia di regime. Era stata una scelta obbligata perché nell’intreccio di fondazioni pseudoprivate del clero e dei pasdaran c’era poco spazio. L’economia iraniana è un oligopolio in mano ai mullah e ai Guardiani della rivoluzione e il posto dove la si può capire meglio è Mashhad, a est verso il confine con il Turkmenistan e con l’Afghanistan. È soprannominata «la capitale nascosta» perché è la città dei capi, è lì che sono nati la Guida suprema Ali Khamenei e il presidente Ebrahim Raisi ed è da quel punto sulla mappa che oggi si irradia il potere in Iran.
Fino a pochi anni fa Raisi era alla guida di una delle fondazioni di Mashhad che formano lo «Stato parallelo» e hanno in mano il pil del paese. La Fondazione degli oppressi e dei disabili da sola gestisce più risorse del ministero delle Finanze e quella che ha governato Raisi, la Astan Quds Razavi, ha un patrimonio di venti miliardi di dollari, è proprietaria di società farmaceutiche e fabbriche di tappeti, giornali e compagnie assicurative e pure della licenza per produrre la Coca-Cola (Khoshgovar) nel paese.
I nonni e i genitori di coloro che a settembre sono andati in strada a combattere con le parole, le molotov, i capelli sciolti e i baci in pubblico sono dipendenti dello Stato oppure donne e uomini che lavorano per le aziende «private» delle fondazioni-holding. Per tutti loro protestare significherebbe rischiare di perdere il posto nel mezzo di una crisi prolungata, quindi con poche speranze di trovarne uno nuovo.
Il 70 per cento degli iraniani ha meno di 35 anni ed è in una condizione diversa perché la macchina economica degli ayatollah si è inceppata: da quel sistema che per decenni ha dato uno stipendio ai cittadini della Repubblica islamica i giovani erano già rimasti esclusi. È una generazione che ha dovuto arrangiarsi da sola e così nel 2016 sono nati Tapsi, il servizio di car sharing più diffuso in Iran, e poi AloPeyk, che è una app per le consegne, e Bdood, che è una app di bikesharing e Aparat, lo YouTube locale. E anche Digikala, per vendere e comprare vestiti online, e Zarinpal, per i pagamenti digitali veloci. Fino agli aggregatori in rete che permettono a tutti di offrire ripetizioni di inglese, matematica, informatica e lezioni di chitarra, oppure di proporsi per andare a fare le pulizie o la spesa, cucinare, curare il gatto o le piante di qualcuno. Ci sono anche quelli che hanno creato marchi di bigiotteria artigianale, abbigliamento, tappeti persiani «rivisitati» e oggetti di design in metallo che vendono sulle app locali o su Instagram. Lavorare in un’economia autogestita li ha resi meno dipendenti dagli ayatollah perché non è da loro che ricevono gli stipendi.
Esclusi i liceali, l’insieme dei manifestanti e dei lavoratori dell’economia indipendente quasi combaciano. Le bacheche sui social network dei fondatori delle startup, come quella di uno dei più famosi, Hessam Armandehi, che ha inventato l’Uber iraniano Divar, nei mesi della protesta si sono riempite di appelli per chiedere la liberazione dei propri dipendenti. Ci sono le loro foto allegate ai post: sono tutti ventenni o poco più e sono tutti stati arrestati mentre manifestavano. Il legame era chiaro dal principio, tanto che il capo del dipartimento Telecomunicazioni dei pasdaran aveva chiesto è una stretta sulle startup private. Subito dopo i primi cortei.
I nuovi iraniani hanno creato dal nulla un’economia parallela e autosufficiente, di cui spesso sono sia i lavoratori sia i clienti, che fa arrabbiare il regime perché è fuori dal suo controllo e perché ha formato la prima generazione di cittadini che non dipende dagli ayatollah per vivere, cioè la condizione per una rivolta.
Da L’incendio. Reportage su una generazione tra Iran, Ucraina e Afghanistan. Mondadori Strade blu, 2023
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