Quando scrisse e pubblicò Trainspotting (Guanda, 1996), Irvine Welsh, allora appena un trentacinquenne, non immaginava che quel libro sarebbe diventato un fenomeno di culto per intere generazioni. Welsh, cresciuto in un quartiere popolare e abbandonata la scuola quand’era ancora un ragazzo, alla letteratura non aveva mai dedicato tempo. Come avrebbe potuto? Doveva barcamenarsi tra lavori strani, precari, prestare attenzione alla musica punk, cui era appassionato da tempo, pensare a restare a galla nella Londra frenetica in cui aveva deciso di trasferirsi. Non lo immaginava, eppure Trainspotting sarebbe diventato un film di grande successo, per la regia di Danny Boyle, e sarebbero arrivati, poi, molti altri romanzi. L’ultimo è Resolution (Guanda 2024),  per cui Welsh è stato tra i protagonisti di Umbrialibri – festival che continua dal 6 all’8 dicembre, a Terni.

Lennox, il suo protagonista, è impegnato a costruirsi una nuova vita e un nuovo sé, quasi una nuova identità. Vuole un’esistenza più tranquilla, più normale, ma il suo passato torna a bussare alla porta e chiede di regolare i conti. Non possiamo scappare da ciò che siamo stati, da ciò che abbiamo fatto e che ci hanno fatto?

Possiamo pure provarci, certo – l’istinto alla fuga credo sia naturale, parecchie volte. D’un tratto, però, può sopraggiungere la stanchezza, l’affanno. E allora, mi chiedo, che senso ha? Tanto vale affrontarlo.

Per quel che riguarda Lennox?

Il suo è un caso specifico, una condizione estrema ed estranea a molte persone – per fortuna, aggiungerei. Lui è stato abusato quand’era bambino, e il trauma, il passato da cui si è tenuto lontano per tanto tempo, è più forte, è più violento. Il suo non è un trauma come quelli che dobbiamo affrontare, più o meno, tutti. Tutti, infatti, nella vita dobbiamo attraversare una situazione spiacevole, forse dolorosa – il divorzio dei genitori, un lutto. No, il suo è più pesante. I disturbi, l’ansia e la depressione, nella maggior parte dei casi, con cui dobbiamo avere a che fare sono delle sentinelle, ci dicono che qualcosa non va. Ci dicono che dentro di noi coviamo qualcosa, e quel qualcosa va affrontato.

A lei è capitato?

Certo. Lo dicevo prima: tutti dobbiamo affrontare, elaborare qualcosa.

Il metodo migliore per farlo, secondo lei?

L’ipnoterapia. Non l’ho mai praticata, ma conosco due ipnoterapisti, entrambi bravi, uno nel Regno Unito e uno negli Stati Uniti, che ottengono grandi risultati con i loro pazienti.

Chuck Palahniuk mi ha detto che la fa. Mi ha detto che per scavare nelle parti più profonde di un trauma infantile vede un ipnoterapista.

Conosco Chuck e sì: in effetti, mi sembra qualcosa che farebbe.

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Il percorso di Lennox verso l’affrancamento dai propri traumi è lungo, e complesso. Si ha la sensazione, però, che alla fine ci sia come una sorta di opportunità.

Non penso che il dolore in sé sia un’opportunità, penso che la fine del dolore, però, lo sia. Usciti dal tunnel buio della sofferenza, finito il percorso, se siamo stati davvero onesti con noi stessi possiamo essere versioni migliori di ciò che eravamo. Percorsi come quello di Lennox ci aiutano a diventare più flessibili, ci portano avanti sul nostro percorso di crescita personale. Per muoverci, così da non rimanere sempre fermi, nella vita, abbiamo bisogno di sfide. Il comfort ci distrugge, restare dove ci sentiamo a nostro agio, senza mai affrontare delle nuove lotte, ci appiattisce.

Non possiamo cambiare il passato, ma possiamo impedirgli di cambiarci. Intende questo?

Sì, in qualche modo è ciò che penso dobbiamo provare a fare. La dipendenza da eroina non è un’esperienza che raccomando, ma ho cercato di trarre la cosa migliore che fossi capace di tirar fuori. Qualcosa di creativo, di bello e che mi permettesse di non lasciare che quegli anni della mia vita andassero sprecati.

Possiamo parlare di quel periodo?

Sì, certo.

La cosa che ricorda di più?

L’idea, la sensazione, dovrei dire forse, che le mie ambizioni e i miei progetti non esistessero più. La vita in casi del genere diventa un affare quotidiano: né la progettualità né il futuro a breve termine sono interessanti. Vivi in funzione della giornata, poi dell’ora, poi del minuto, infine del momento. Ed è come se non esistesse altro.

È tutto immediato.

C’è un’immediatezza, un imperativo nella compulsione che non ti concede di essere altro.

A proposito della memoria. In questo romanzo per Lennox i ricordi sono importanti, hanno un ruolo fondamentale. Cos’è il passato per lei?

Una storia che ci raccontiamo.

Lei che rapporto ha con la memoria?

Strano. Non ho una grande memoria, ricordo molto poco e la faccenda, a esser sincero, non mi interessa granché. Ho tanti amici che mi raccontano com’ero, cosa facevo, dicevo anni fa e mi sorprende sempre ricordare così poco. Tendo a vivere nel presente. La memoria, come dicevo prima, è riscrittura.

D’altronde, siamo nell’Era della post verità.

Esatto, però c’è una differenza. Alcuni, infatti, preferiscono credere alle tante, tantissime bugie che vengono raccontate da politici come Trump, mentre altri, semplicemente, riscrivono loro stessi senza cattive intenzioni.

Perché crede che certi – come gli elettori di Donald Trump, sì – siano tanto a loro agio con le bugie che racconta? Alcune sono bugie evidenti.

Perché la verità implica responsabilità, e nessuno vuole addosso il peso delle proprie responsabilità, delle proprie colpe. Credere a certe bugie, adagiarci su certe storie ci assolve.

L’odio che nasce da questo meccanismo – ché, in fondo, la polarizzazione di questi anni gioca molto sull’odio tra fazioni – non è un fardello?

Sì, ma il suo peso è minore. La gente è confusa, disperata, vuole delle risposte, delle risposte semplici, immediate a problemi difficili. Le bugie cui facciamo ora riferimento danno loro qualcosa del genere.

Tornando al romanzo. Raramente, che io ricordi, lei ha dato un ruolo così importante all’infanzia, in un libro. Perché ha deciso di farlo, in questo?

Perché l’infanzia è il periodo che ci forma di più, che ci costruisce molto più degli altri della nostra vita. Gli amici di quell’età, la comunità in cui cresciamo e la famiglia che ci educa hanno un ruolo fondamentale.

Quindi da una certa età in poi è predestinazione. Questo sta dicendo?

Non proprio: non siamo mica delle marionette, però molte delle modifiche al nostro carattere avvengono in quel periodo. Tutto qua.

Tornando indietro, dunque. Cos’è che la costruita di più, in quegli anni?

I miei amici più stretti – con cui sono cresciuto e con cui ho condiviso infanzia e adolescenza. La mia famiglia. La gente del mio quartiere.

In un’intervista ha detto che da bambino i suoi le leggevano delle storie.

È vero, la sera soprattutto. Mio padre le inventava apposta per me, mia madre me le leggeva, invece.

Suo padre inventava delle storie? Quindi lei non è il primo scrittore della famiglia.

Neanche della comunità in cui sono nato e cresciuto, il quartiere. Ma neanche della strada o della palazzina in cui sono nato e cresciuto. Tutti lì avevano una storia da raccontare e tutti avevano le capacità di raccontarle. Forse non molta pazienza per metterla per iscritto, però nei pub e in strada potevi sentire storie ogni giorno, ogni notte.

Welsh, tornando a lei. Guardandosi indietro e guardando la sua carriera, c’è qualcosa che farebbe diversamente?

No, direi di no. Sono soddisfatto di dove sono arrivato. E comunque non sono mai stato incline a vedere il mio lavoro pensando a una carriera.

Che intende?

Ho sempre e solo perseguito i miei interessi, a volta spostandomi dal percorso che avevo seguito fino a poco prima. Ho iniziato a scrivere per non avere una carriera.

Mi ha detto di non avere una grande memoria, e di non pensare spesso al passato. Del futuro che mi dice?

Non mi proietto mai oltre due o tre settimane.

Welsh, le faccio la mia ultima domanda. Immagini di avere ottant’anni e che sia una domenica mattina: dove e con chi è, che fa?

Le ho appena detto che non mi proietto oltre due o tre settimane, e vuole farmi andare tanto avanti? (ride, ndr).

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