Chi sarà mai Nerina, autrice senza cognome del nuovo libro di poesie che Jhumpa Lahiri, la più importante e premiata voce letteraria italiana di questo giovane secolo, ha appena dato alle stampe per Guanda? Tanta teoria francese d’antan, da Roland Barthes a Michel Foucault, ci ha insospettiti su questi polverosi termini d’autorità (“autore”, “autrice”, persino “autografo” sia nel senso paparazzesco che in quello filologico), mostrandoci che si tratta di trappole autoritarie appunto, d’inganni speciosi.

C’è quell’inquietante “aut” di fondo, quella radice avvelenata che produce parole violentissime, feroci, come “autarchico” o, peggio, “autentico”. Per fortuna però i poeti ci liberano dalla gravità della filosofia e degli ètimi mendaci, infischiandosi da sempre della presunta identità che dovrebbe conformare il nome di chi scrive a quello di chi firma a quello di chi vive, e così via.

Dante (che forse si chiamava Durante) dice “io” ma fa dire “Dante” a un altro (a un’altra anzi, e assai tardi, nella Commedia); il nome di Petrarca, a ben vedere, non è affatto il suo nome, ma uno pseudonimo arcaizzante; se dico Arsenio, Eusebio, Berto Chopin o Giuseppe Carimandrei, qualsiasi laureando in Lettere sa che sto parlando di Eugenio Montale e di Umberto Saba (il quale del resto, all’anagrafe, non si chiamava neanche Saba). Fernando Pessoa covava in sé un ventaglio di autori, ognuno con un suo nome e una sua poetica—addirittura una sua bibliografia, come un personaggio di Jorge Luis Borges. Diceva (tradotto da Antonio Tabucchi) che «il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente».

Senza identikit

L’aut aut di autore e di autentico (quella congiunzione che disgiunge, e che traduciamo con un infrangibile cerchio confinante, con un occhio senza palpebre di guardiano) non è mai stata la radice di nulla nell’opera di Lahiri, ingegnera e traversatrice di ponti, alchimista di genti e d’idiomi, politropa poliglotta tra i poli e i popoli.

Il suo primo romanzo, lo straordinario The Namesake, si gioca d’altronde tutto sull’assurdità di rispondere a un nome solo, giacché ognuno è titolare di molteplici sé e di altrettanti destini.

Alla protagonista dell’ultimo, Dove mi trovo (in questi giorni ai vertici delle classifiche internazionali nella sua auto-traduzione in inglese Whereabouts), un nome non l’ha nemmeno dato. C’è chi dice che la sua sia un poetica dell’identità, ma la verità è che nulla è familiare ai suoi occhi letterari, alieni a (ma curiosi di) tutto, salvo la tragica certezza di non essere identica a nessuno, di non potersi identificare, di resistere a qualsiasi identikit.

Persino il nome che compare sulle copertine dei suoi libri, “Jhumpa”, è diverso da quello sul suo certificato di nascita britannico – e, immagino, sul passaporto americano, nonché sulla patente italiana che reca, come i libri tradotti in tutto il mondo, la sua foto.

&

Un’altra grande scrittrice contesa tra le lingue e le sponde dell’oceano, Giulia Niccolai, ci ha appena lasciati dopo mezzo secolo d’illuminante avanguardia. Nel suo ultimo libro, Favole & Frisbees, ragionava sulla & che campeggia in quasi tutti i suoi titoli, indecisa se leggerla, ritorta e ciclica com’è, come un intestino o un cervello.

Per Niccolai, monaca buddhista milanese di madre americana, quel gheriglio tipografico rappresentava la natura convoluta, segretamente difficile, del gesto più diretto che la grammatica ci offra: la congiunzione copulativa nella sua forma più essenziale, di unico suono e segno, che oggi spaventa tanto i grammatici della domenica quando la si capovolge per suggellare parole senza genere con un fonema altrettanto aperto ai bivi, schwa.

Ogni & è un bivio aperto che conduce due estranei allo stesso crocevia. E ogni libro di Jhumpa Lahiri, in italiano o in inglese, fa in fondo lo stesso: organizza un incontro tra sconosciuti che scoprono, sgomenti, di essere separati da un vetro di specchio – di essere la stessa persona.

Una forma di eroismo

Come Fuoco pallido, il romanzo più perfetto di Vladimir Nabokov, un altro grande translingue, Il quaderno di Nerina è un gioco a tre. È dunque più una E che una &, per concludere la metafora delle congiunzioni. Nabokov, da dietro la tenda del mago di Oz, evocava il poeta John Shade e il suo critico (e vicino di casa) Charles Kinbote sul palcoscenico di un ipertesto travestito da edizione commentata di un poema in quattro canti.

Anche Lahiri manifesta meta-letterariamente una poetessa, Nerina, e la sua esegeta (un’italianista della Pennsylvania di nome Verne Maggio), scomparendo dalle pagine appena dopo aver introdotto il libro e dichiarato di averlo scovato per caso nel cassetto di una scrivania a Roma. A differenza di Nabokov però, Lahiri si nasconde in piena vista, abbagliando chi legge con una sfacciata ostensione filologica.

Come l’interprete dei malanni del suo libro d’esordio, come la curatrice del Penguin Book of Italian Short Stories che risponde al suo stesso nome, Jhumpa Lahiri ha sempre compiuto miracoli esercitando una qualche forma di mediazione, di traduzione, di curatela; mai ricorrendo a trucchi e sortilegi. La sua serena, malinconica resistenza alla fine della modernità è una specie di eroismo, e in questo libro si esprime completamente.

Literature Z

Si guardi anche solo l’indice, amorevolmente ricalcato sulla struttura desueta e perfetta del classico libro di poesia novecentesco, con poesie in limine stampate in corsivo e un andamento sinfonico, che dosa il grave e l’acuto. E si noti come ognuno dei titoli delle sezioni (tutti rimanti, a parte il preludio Davanzale e l’intermezzo Dimenticanze, e rimati con ‘sezioni’ appunto: Evocazioni, Accezioni, Generazioni, Peregrinazioni, Osservazioni) abbia in comune una Z.

Nel 1977 Paul De Man e Geoffrey Hartman tennero un leggendario corso per i laureandi in Lettere di Yale, cui allora veniva insegnato solo a riconoscere il rapporto tra letteratura e società e a studiare la storia delle teorie letterarie contemporanee. Volevano educarli anche e soprattutto all’esegesi, all’interpretazione diretta sia dei testi sia dei saggi sui testi, e volevano dimostrare loro, come recita il programma, «la necessità di conoscere almeno una seconda lingua per acquisire competenza nella critica letteraria». Intitolarono quel corso Literature Z.

Trovare Nerina

Il quaderno di Nerina, declinato in Z sin dall’indice, si sarebbe prestato perfettamente agli esercizi d’interpretazione architettati da De Man a Yale. Si presenta come già come uno studio, come una lettura condivisa: come l’edizione critica della raccolta inedita di una sconosciuta.

Dicevo che è un gioco a tre anche perché, come ogni edizione critica, è composto di due libri: il testo (le poesie) e il paratesto (la struttura di quelle poesie, il commento che le segue, le note che le inquadrano). Il terzo libro, l’unico firmato da Jhumpa Lahiri, è la prefazione, che racconta la storia degli altri due attraverso l’italianissimo topos del manoscritto ritrovato (la radice, come sanno tutti, del nostro romanzo nazionale, I promessi sposi, per la cui imminente nuova traduzione americana, incidentalmente, Lahiri ha scritto una splendida postfazione).

Tutti e tre questi libri cercano di rispondere esegeticamente alla domanda da cui sono partito: chi è Nerina? Chi è questa poetessa chiaramente multilingue ma fedele all’italiano, colta e sorvegliata ma improvvisamente giocosa, che nel corso del suo apertamente autobiografico canzoniere non fa che perdere oggetti e prendere fregature, immaginare catastrofi, distillare gioie assolute dalle cose banali e dalla forma delle parole? Trovare Nerina è l’esercizio cui Lahiri, con il divertente controcanto serioso di Maggio, ci invita lungo i meandri di questo bivio-labirinto da Literature Z – e si sa che trovare e poetare, sin dal basso medioevo dei trovatori, è un po’ la stessa cosa.

Qualche settimana fa è uscita su La Stampa un’intervista a Lahiri intorno a questo libro. Mi ha sorpreso che, nel titolo, figurassero espressioni come “la vostra lingua” e “le mie poesie “italiane”. Come si possono mettere le virgolette all’italianità di poesie che materializzano i vapori dei bar di Caproni e i passi pesanti di Saba, il diarismo ottuso di Amelia Rosselli e quello gentile e ossessivo di Bertolucci?

Come si può pensare che una devota di Parise e di Leopardi, una che insegna Levi e traduce Starnone, una che sceglie Giosetta Fioroni per la copertina del suo primo libro di poesie, pensi alla lingua in cui le ha scritte come “vostra” e non sua? Mi domando di chi sia questa lingua italiana, se non di chi è capace di trasformare chi la parla da tutta la vita in un visitatore stupito, straniero a sé medesimo.

           

                       

© Riproduzione riservata