Era una mattina di ottobre del 2007 e il vialetto di casa di Doris Lessing, scrittrice, brulicava di giornalisti. Lessing, scesa dal taxi, trovando di fronte a sé tanti obiettivi che si accavallavano tra loro provando a scattarle una foto, chiese «Fotografate qualcosa di divertente?» e ridacchiò, «Fotografiamo lei. Ha sentito la notizia?» le rispose un giornalista, «Lei ha appena vinto il premio Nobel per la Letteratura», Lessing tirò su gli occhi al cielo e si lasciò andare «Oh, Cristo!».

Vincere il Nobel, superfluo dirlo, ti cambia la vita, ma sul come di solito possiamo solo fare delle congetture. Di solito, però non oggi: oggi a Milano, noi di Domani assieme ad altri giornalisti, giornaliste, abbiamo incontrato il premio Nobel per la Letteratura 2023, Jon Fosse. Scrittore e drammaturgo norvegese tra i più celebri, acclamati al mondo, è considerato tra i cento geni viventi dal Daily Telegraph, nonché l’erede di Samuel Beckett.

«Tra gli anni Novanta, i primi Duemila ho scritto molto per il teatro e ho avuto un certo successo. Andavo in scena in diversi paesi d’Europa, ragione per cui viaggiavo in continuazione, venivo tanto intervistato e i giornali scrivevano di frequente delle mie opere. Insomma, alla fama e all’attenzione mediatica ero, più o meno, abituato e credevo, nelle ore successive all’annuncio del Nobel, che me la sarei cavata. Mi sbagliavo: ero impreparato, l’onda che mi ha investito ha raggiunto un’altezza che non ero manco capace d’immaginare», ci spiega Fosse, e nella mia testa echeggia Lessing: oh, Cristo!

«L’aspetto positivo della vicenda è che negli anni in cui ho goduto di notorietà per via del teatro ho imparato una cosa fondamentale, cioè a dire no. Così in questi mesi, quando iniziavo a sentire troppa pressione addosso, dicevo no. Non posso venire, non posso rispondere».

Cosa si ascolta

Fosse in fondo ama la solitudine, ama il silenzio. Più volte, intervistato, ha detto che per lui scrivere è ascoltare, ma non i rumori della città, non le voci di altre persone e non la musica, non la televisione. Fosse ascolta il silenzio.

«Per sentire la voce di Dio il silenzio è necessario, perciò non ascolto né la radio né la televisione, perciò non vado al cinema, ai concerti,  tuttalpiù vado a quelli di classica, Bach». Ma cosa senta nel silenzio non lo sa lui stesso e tutto quello che può dire è che nel silenzio nasce la sua scrittura. «Perciò per scrivere Settologia ho preso in affitto un appartamento nella periferia di Vienna: volevo pace».

 Fosse difatti vive nella residenza di Grotten, nel cortile del palazzo reale norvegese, dove gli è permesso di abitare dal governo per i suoi meriti letterari. «Molto strano avere il re come vicino di casa, non mi ci sono ancora veramente abituato. Non ho scritto molto in quella casa, ma Un bagliore l’ho scritto lì».

Commedia moderna 

Un bagliore (La nave di Teseo 2024) è l’ultimo romanzo di Fosse. Per certi aspetti, un racconto lungo. Un uomo, dopo aver vagato tra delle stradine di campagna, girando a destra e a sinistra senza alcuna logica, resta impantanato e, non riuscendo a tirar fuori la propria auto dal luogo in cui è fissa, decide, e pure in questo caso senza granché ragionare, d’inoltrarsi nel bosco che si apre giusto di fronte a lui.

Presto, incontrerà un bagliore: una fonte di luce che gli parla, che lo attira, che lo chiama senza appellarlo. Sembra quasi di vedere Dante muovere i primi passi nella selva oscura della Commedia, insomma.

«Da giovane ho studiato letteratura comparata e la Divina Commedia in classe l’abbiamo letta ed esaminata tantissime volte. A casa ho due edizioni, una in italiano e una in inglese, e spesso le rileggo. Non è un omaggio intenzionale, però, considerato quel che vi ho appena detto, è probabile che dei riferimenti ci siano. Quando si scrive tutte le letture fatte in precedenza tornano sulla pagina e nella maggior parte dei casi l’autore non ne è davvero consapevole».

Un mistero 

EPA

Fosse parla della propria scrittura come di un mistero: è un segreto della cui natura lui stesso è all’oscuro. Diverse volte gli chiediamo il significato di un momento, una scena, un’azione e il premio Nobel ci risponde puntuale che non sta a lui trovare un’interpretazione a quel che ha scritto, ma ai lettori.

«Non è la storia a spiegare un momento, una scena, un’azione, me le sue interpretazioni e ciascun lettore ha le proprie. La mia, di interpretazione, credo, tra l’altro, valga quanto quella di chiunque altro»., risponde quando gli diciamo, discutendo con lui di Un bagliore, che l’uomo in nero, incontrato nel bosco dal protagonista, ricorda Virgilio nella Commedia dantesca, appunto.

Lo stesso poi dice quando gli chiediamo perché i genitori, anche loro: incontrati nel bosco dal protagonista, siano senza scarpe ai piedi. «Quando scrivo non ho un piano già in mente, nulla di prefissato: mi siedo e comincio a scrivere. Parto da un inizio che mi soddisfa e che sento spingere dentro di me perché vada avanti, continui nella storia che sta venendo fuori, e continuo e continuo e continuo sempre seguendo, perseguendo il ritmo iniziale, quello nato spontaneamente. In Settologia la frase è unica, una soltanto proprio perché in principio non sentivo il bisogno di usare dei punti e così è stato.

La scrittura per me è un flusso continuo, un fiume che non s’interrompe mai e a volte, scrivendo, mi trovo a fare delle cose, come, appunto, in Settologia, che sorprendono anzitutto me. Soprattutto, a volte, anzi: praticamente sempre, la sensazione che ho, scrivendo, è che ciò che viene fuori, che si materializza sulla pagina, sia già stato scritto in un livello altro e che mio compito sia trascriverlo e concretizzarlo in questo, di livello: nella realtà».

Diretto e solenne 

Nel parlare della sua scrittura, Fosse usa un tono al tempo stesso pratico e religioso, semplice, diretto e però pure solenne: siede e scrive, un meccanismo senza fronzoli, ma le parole, poi, parrebbero arrivare da un luogo altro. Vicino o distante che sia questo luogo, il premio Nobel lo visita, andando e tornando, nel modo più naturale possibile, talmente spontaneo da scivolar via da qualsiasi suo tentativo d’identificazione. Che luogo è, dunque?

«Quando scrivo cerco sempre di allontanarmi da me stesso, di prendere le distanze da ciò che sono. Gli scrittori che provano ad avvicinarsi a loro stessi, e che, in questo avvicinamento, vorrebbero indagarsi ed esprimersi sono molti e forse, addirittura, è la gran parte, ma io non sono così. Io sono stanco di avere a che fare con me stesso, voglio andar via, visitare altri posti. È sempre stato così, per me, anche quando avevo vent’anni e la mia visione della letteratura, o forse dovrei dire del mondo in generale, era pessimistica: la letteratura crea per autori e autrici universi paralleli, microcosmi in cui rifugiarci».

Dunque cosa segue lei, Fosse, quando scrive? «Il ritmo. Non so cosa sia, non so come o da dove nasca, da dove venga fuori o quale sia la sua materia, ma so, lo so perfettamente, che è cruciale, vitale».

Quando si parla della letteratura di Jon Fosse il mistero, a quel che pare, è importante. Ogni cosa si cela, si trasforma ma perché non voglia farsi intuire, perché voglia tenere per sé la sua natura, la sua origine, e i suoi frutti ma perché è nella sua mancata identificazione che sboccia il suo senso più profondo. No, i nomi non servono, dare delle etichette, trovar dei significati è inutile, anzi forse è addirittura dannoso. Fosse si è convertito al cattolicesimo nel 2012 e magari è proprio per questo che è tanto legato all’idea di un mistero, di un bagliore privo di definizioni: Dio.

«Per avvicinarci al mistero della vita dobbiamo disfarci anzitutto di ogni contingenza – dei nomi e delle definizioni. È per questo che nelle mie opere non li uso. Sono dettagli futili. Se vogliamo accostarci all’essenza del mistero che è, credo, alla base della vita, ciò che dobbiamo fare è allontanarci da noi stessi per addentrarci nel bosco».

© Riproduzione riservata