La relazione tra morale e diritto è un tema che travalica la questione specifica della giurisprudenza nazista ma Pauer-Studer, filosofa e docente all’università di Vienna, ha ragione a dire che questa rappresenta un caso dirimente: dimostra quanto sia pericoloso far coincidere per forza morale e diritto
- Com’è che i cittadini di intere nazioni si sono resi colpevoli, direttamente o indirettamente, dei crimini del nazismo e del fascismo? Trovare una risposta che vada più in là dello sconsolato appello alla cecità morale è l’obiettivo della filosofa Herlinde Pauer-Studer.
- Attraverso un esame meticoloso di dibattiti centrali della giurisprudenza nazista, Pauer-Studer porta alla luce le ambiguità concettuali e gli slittamenti semantici che consentono al diritto nazista di assumere le sembianze di una morale auto-giustificatoria.
- Si tratta di una distorsione che ha operato attraverso il concetto stesso di legge e di principio.
Com’è stato possibile? È la domanda di coloro che sono venuti dopo i tempi bui. Com’è che i cittadini di intere nazioni si sono resi colpevoli, direttamente o indirettamente, dei crimini del nazismo e del fascismo? Chi viene dopo ha ragione di fare questa domanda. Sarà una domanda alla quale loro stessi dovranno, un giorno, rispondere. Trovare una risposta convincente, che vada più in là dello sconsolato appello alla cecità morale, è l’obiettivo della filosofa Herlinde Pauer-Studer, docente all’università di Vienna, il cui progetto sulla distorsione delle norme è stato per ben due volte premiato e finanziato dallo European Research Council.
Complessità morale
Herlinde Pauer-Studer è autrice, insieme al filosofo americano David J. Velleman, di una sorta di biografia morale di Konrad Morgen, avvocato e giudice dell’unità speciale contro i crimini dei membri Waffen-SS. Era stato lo stesso Einrich Himmler a istituire questa unità, a riprova del convincimento generale che i campi di sterminio erano amministrati in modo “onesto” e “moralmente decente”.
Morgen si dichiara un “fanatico della giustizia”, si mette alla caccia di casi di corruzione, assicurando “alla giustizia”, i nazisti corrotti. È l’esperienza diretta delle atrocità di Auschwitz a trasformarlo: dopo una profonda crisi personale, si assume in prima persona la responsabilità di contrastare il sistema dall’interno. Come dirà al processo di Norimberga, vede l’opportunità di usare la legge nazista per decapitare il sistema, rimuovendone i vertici corrotti. E così fece. Fu Morgen a incriminare Karl Otto Koch, comandante del campo di concentramento Buchenwald, poi giustiziato dalle SS nell’aprile del 1945. Koch si è macchiato di colpe inenarrabili contro l’umanità, ma viene incriminato per appropriazione indebita, mala gestione del campo.
La complessità morale del giudice Konrad Morgen è lontana dalla banalità del male, che Hannah Arendt ci ha restituito nel suo ritratto di Eichman. Per troppo tempo Morgen accetta l’ethos nazista, moralmente indifferente alle atrocità di cui è a conoscenza. La sua coscienza si risveglia solo di fronte all’omicidio su scala industriale.
Queste impressionanti incongruenze non emergono alla soglia della coscienza: durante il processo di Norimberga dichiara, anzi, di essere stato giudice “imparziale” per tutta la sua carriera. La testimonianza di Morgen a Norimberga è da prendersi alla lettera; non è un’autogiustificazione ipocrita, né un autoinganno assolutorio. Come tutte le testimonianze, anche questa è diretta a coloro che verranno. A coloro che verranno Morgen non chiede indulgenza. Piuttosto, il sotto-testo del discorso di Morgen, uomo di legge, è che, in tempi bui, il meglio che si può fare è combattere le ingiustizie nei termini della giustizia umana.
Diversamente da Adolph Eichman, Morgen non si nasconde dietro alle gerarchie, né si appella all’inderogabilità degli ordini, ma fa sua l’etica dell’imparzialità e dell’onestà. Nella sua deposizione al processo di Norimberga, dice di aver sempre messo in pratica il principio di imparzialità, come se la pratica normativa e giuridica nazista fosse una cornice esterna al suo operare, un fatto circostanziale che non ha inquinato le sue buone intenzioni, ma le ha concretizzate.
Ambivalenza e autoinganno
L’opacità di Morgen è moralmente dubbia ma politicamente interessante, poiché mette in luce un meccanismo essenziale dell’affermarsi del totalitarismo, ovvero, un progressivo estraniamento dell’individuo rispetto alle pratiche normative invalse. È un meccanismo che i filosofi dell’azione come David Velleman, stretto collaboratore di Pauer-Studer, dovebbero mettere a fuoco perché rende conto di azioni collettive altrimenti inesplicabili.
L’opacità, l’ambivalenza, l’auto-inganno, il doppio standard non sono effetti secondari del modo in cui si organizza l’azione collettiva; né sono solo strategie difensive individuali, grazie alle quali persone perbene, educate al rispetto della legge, rifuggono alla terribile verità di essere strumenti di un potere repressivo e sanguinario. Certo, c’è anche un atteggiamento difensivo, tipico di chi non sostiene il peso della verità su sé stesso. Che questo atteggiamento evasivo sia moralmente deprecabile è fuor di dubbio; anche se alcuni, inclusa Pauer-Studer, richiamano l’attenzione sulle condizioni ‘non-ideali’ in cui questi agenti operano.
L’ambivalenza di Morgen è una forma di complicità che genera atteggiamenti reattivi di condanna, ma vivere in tempi bui è una circostanza attenuante. Credo si possa obiettare che tali circostanze, anziché discolpare le molte persone come Morgen, fanno emergere il carattere collettivo della colpa. Le circostanze non ideali sono il risultato di meccanismi dissociativi e ambivalenti funzionali a un agire collettivo fortemente parcellizzato e verticalizzato.
Quello di Morgen non è un caso isolato. È un esempio paradigmatico la cui analisi filosofica rivela le dinamiche della creazione politica del consenso e della stabilità di pratiche immorali. Nel suo ultimo libro, Justifying Injustice. Legal Theory in Nazi Germany (Cambridge University Press, 2020), Pauer-Studer indaga queste dinamiche applicando l’analisi filosofica alla giurisprudenza della Germania nazista. La sua tesi è che tali dinamiche abbiano sfruttato il vocabolario concettuale della moralità per sostenere un sistema normativo organizzato intorno al valore della purezza di razza, di lealtà ai principi del nazismo e usando la punizione come strumento sistematico di terrore.
Attraverso un esame meticoloso di dibattiti centrali della giurisprudenza nazista, Pauer-Studer porta alla luce le ambiguità concettuali e gli slittamenti semantici che consentono al diritto nazista di assumere le sembianze di una morale auto-giustificatoria.
Distorsione della filosofia
Questo mascheramento avviene attraverso l’appropriazione del vocabolario filosofico di Rousseau e di Kant, svuotato del loro significato originario e decontestualizzato, con i risultati aberranti già messi in luce da Hannah Arendt. Si tratta di una distorsione che ha operato attraverso il concetto stesso di legge e di principio, trasformando l’etica dell’autonomia e del rispetto reciproco in un’etica della conformità coatta e della uniformità. Una tale operazione distorsiva ha pesantemente compromesso la ricezione della filosofia morale e politica kantiana, limitando la fruizione di risorse teoriche essenziali al discorso democratico.
In ambito anglo-americano, ma non solo, John Rawls ha avuto il merito di recuperare e valorizzare la teoria del ragionamento di Kant, restituendogli un ruolo centrale nella riflessione etica e politica contemporanea. L’appello kantiano all’universalità è un test di validità dei principi che garantisce il riconoscimento dell’altro come eguale. Al servizio di una società pluralista, esso protegge la diversità delle visioni morali e articola i disaccordi rilevanti dal punto di vista etico e politico.
Ignorando la distinzione kantiana tra diritto e morale, i giuristi del nazionalsocialismo disegnano uno stato repressivo e paternalistico, ben lontano dall’ideale illuminista che circoscrive il potere dello stato e la sua autorità giuridica alla salvaguardia della sfera esterna della libertà. La relazione tra morale e diritto è un tema che travalica la questione specifica della giurisprudenza nazista, ma Pauer-Studer ha ragione a dire che questa rappresenta un caso dirimente. Esso dimostra quanto sia pericoloso far coincidere per forza morale e diritto; il rischio è l’appiattimento degli standard morali al servizio del diritto positivo. Su questo punto Pauer-Studer si pone in netto contrasto con una letteratura corposa sulla giurisprudenza nazista.
E, in effetti, la sua conclusione può sembrare paradossale: se il problema è che il diritto nazista ha adottato una visione distorta della morale, il rimedio non è correggere la distorsione, riportando il diritto sulla retta via? No, perché il rischio di un abuso ideologico è tragicamente alto e mina le basi del riconoscimento delle diversità morali. Bisogna tenere ben separati morale e diritto, proprio per assicurare il loro corretto funzionamento tramite un confronto costante. L’appello agli standard morali ci consente di criticare il diritto e interrogarne le fonti di autorità. Ci consente, cioè, di affrontare anzitempo la domanda di coloro che verranno.
© Riproduzione riservata