A 55 anni dallo sbarco sulla Luna, vale la pena riprendere lo scambio tra Calvino e Anna Maria Ortese, in cui lo scrittore riesce a riconciliare il linguaggio della scienza e quello della fantasia
Questa sera, guardate il cielo estivo. Vi accompagnerà una Luna quasi piena e se avrete la fortuna di trovarvi in un luogo buio vi troverete immerse e accarezzati dalla sua luce morbida. Il Sole non consente lo sguardo, se non quando è bambino o anziano nel giorno. La Luna invece si lascia osservare e così diventa la nostra finestra sul cosmo, un ponte ideale verso le profondità dell’universo.
Come il 20 luglio del 1969, 55 anni fa, Neil Armstrong compiva sulla Luna «un piccolo passo per l’uomo, un grande balzo per l’umanità», così l’osservare la Luna da sempre è stato certo minuscola cosa rispetto alla vastità dello spazio, ma ha permesso di liberare lo sguardo e di estendere verso l’alto la nostra esplorazione del mondo.
Conoscere il satellite
Per primo lo fece Galileo; professore all’università di Padova, nel 1609 ebbe il coraggio di andare oltre, di alzare il cannocchiale dai limitati orizzonti umani a quelli celesti e di iniziare quindi una narrazione di cieli non più incorruttibili e divini, e quindi altri rispetto all’imperfezione della terra e di chi la abita, ma invece a noi assai più vicini.
Come scrive nelle prime pagine del Sidereus Nuncius, rivoluzionario trattato di astronomia pubblicato a Venezia nel 1610 e basato sulle sue prime osservazioni con il cannocchiale, «bellissima cosa e oltremodo a vedersi attraente è il poter rimirare il corpo lunare, da noi remoto per quasi sessanta semidiametri terrestri, così da vicino come se distasse di due soltanto di dette misure; (…) e quindi con la certezza che è data dall’esperienza sensibile, si possa apprendere non essere affatto la Luna rivestita di superficie liscia e levigata, ma scabra e ineguale, e, allo stesso modo della faccia della Terra, presentarsi ricoperta in ogni parte di grandi prominenze, di profonde valli e di anfratti» (traduzione Marsilio ed, 1993).
Solo apparentemente l’«esperienza sensibile» della fisica depaupera l’immagine e il fascino della Luna. Nel restituirle materialità, il racconto di Galileo ce la avvicina, la rende familiare, sicuramente imperfetta, ma strumento di conoscenza. Galileo ama la Luna, e «chi ama la Luna davvero non si accontenta di contemplarla come un’immagine convenzionale, vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella Luna, vuole che la Luna dica di più». Parole di Italo Calvino, queste, tratte da una lettera aperta alla scrittrice Anna Maria Ortese.
Il dialogo tra Ortese e Calvino
Il 24 dicembre 1967 il Corriere della Sera pubblicò fianco a fianco, con il titolo Occhi al cielo, uno scambio epistolare tra Ortese e Calvino. Vale la pena leggerlo per intero, sono due lettere belle e preziose, si trova facilmente in rete. Siamo negli anni della corsa allo spazio, nel decennio nel quale – per dirla con le parole John Kennedy – «We choose to go to the Moon» («Scegliamo di andare sulla Luna»).
Anna Maria Ortese si rivolge a Calvino esprimendo tristezza per la corsa allo spazio. «Caro Calvino,» esordisce, «non c’è volta che sentendo parlare di lanci spaziali, di conquiste dello spazio, ecc., io non provi tristezza e fastidio; e nella tristezza c’è del timore, nel fastidio dell’irritazione, forse sgomento e ansia. Mi domando perché».
Ortese ricorda di essere «nata e cresciuta tra due guerre», in un «mondo come incubo. Fosse, cannoni, muri del pianto. Assassini ornati come angeli. Aerei. Città sventrate, decapitate. Odore di corruzione. Io ero là», scrive. Scenari cupi dove, continua, «Non ho mai visto né pulizia, né spazio, né ordine, né bontà, né ho visto sicurezza, calma, giustizia».
Salvo di fronte al cielo notturno: «Sempre ho dovuto aspettare il sopraggiungere della notte, per trovarle: quando alzavo gli occhi, e rivedevo lo spazio stellato». Ma la corsa alla conquista della Luna la preoccupa. Quel luogo di pace, con i suoi silenzi «consolatori e capaci di restituirmi a un interiore equilibrio» rischia per lei di diventare «spazio edilizio. O nuovo territorio di caccia, di meccanico progresso, di corsa alla supremazia e al terrore».
Le risponde Calvino: «Cara Anna Maria Ortese, guardare il cielo stellato per consolarci delle brutture terrestri? Ma non le sembra una soluzione troppo comoda? Se si volesse portare il suo discorso alle estreme conseguenze, si finirebbe per dire: continui pure la terra ad andare di male in peggio, tanto io guardo il firmamento e ritrovo il mio equilibrio e la mia pace interiore. Non le pare di “strumentalizzarlo” malamente, questo cielo?».
Lungi da un tecnologico entusiasmo «per le magnifiche sorti cosmonautiche dell’umanità» e conscio del rischio che l’esplorazione dello spazio diventi esercizio di potere, lo scrittore dichiara però il suo amore per la conoscenza, per l’«appropriazione vera dello spazio e degli oggetti celesti, cioè conoscenza: uscire dal nostro quadro limitato e certamente ingannevole, definizione di un rapporto tra noi e l’universo extraumano». Come accadde a Galileo e ai suoi contemporanei grazie alle osservazioni fatte col cannocchiale, così il programma Apollo offre a donne e uomini del XX secolo nuova conoscenza della Luna.
Scienza e immaginazione
La Luna è da sempre «l’astro dove, da sempre, scienza e immaginazione si incontrano», come l’ha ben definita Pietro Greco, l’Astro narrante che dà il titolo a un suo libro (Springer 2009). La Luna racconta di sé, dell’universo e anche di noi, a chi «vuole vedere di più», come scriveva Calvino, a chi anela a una visione integrale; non quella che ai tempi di Galileo derivava dall’astratta e distante perfezione della cosmologia tolemaica, o dall’ immaginario convenzionale, sì più rassicurante ma meno generativo, ma quella che nasce dalla conoscenza dei limiti e dal desiderio di errare per superarli.
Il cannocchiale di Galileo, l’Apollo 11, le fotografie degli astronauti, diventano strumenti per il racconto che la Luna fa di sé stessa e che lungi dall’essere patrimonio di pochi scienziati deve trovare posto, secondo Calvino, nell’immaginazione e nel linguaggio di tutti, nei «territori che la letteratura esplora e coltiva».
Perché, alla fine, la parola, il linguaggio, sono fondamentali, anche per la scienza, perché la rendono trasmissibile e umana. Lo scrive bene Vera Gheno nel suo recente Grammamanti (Einaudi, 2024): «la parola ci rende animali narranti e narrati, modifica la realtà che ci circonda, il nostro rapporto con noi stessi e con le altre persone: tutto è mediato dalla parola». Anche per «le scienze più “dure”» che, continua l’autrice, «sarebbero nulla senza la parola: rimarrebbero discipline fini a sé stesse, non spiegabili».
Ecco quindi emergere, al termine della sua lettera, la meravigliosa sintesi di Calvino, oggi più che mai attuale in un mondo dove prevalgono le specializzazioni a spese delle visioni, le semplificazioni binarie rispetto alla complessità, dove la scienza rischia di dividere più di creare comunità ampie.
A mio giudizio Calvino riconcilia l’umanissimo timore di Ortese con il fascino dell’esplorazione, grazie alla forza della parola e alla preziosa sinergia tra letteratura e scienza. La «lingua matematica» i cui «caratteri son triangoli, cerchi e altre figure geometriche» che Galileo ne Il Saggiatore definisce necessaria a comprendere «questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo)» non è linguaggio escludente. Quando si unisce alla bellezza della narrazione, diventa di tutti.
Osservazioni astronomiche, equazioni, traiettorie, possono diventare letteratura, la fisica può trovare nella poesia una strada per esprimersi, scienze e letteratura, o arte, musica, non sono mondi inconciliabili, ma anzi insieme ci aiutano a scoprire i colori e le diversità del mondo.
Tanto che Calvino – non senza suscitare polemiche – chiude affermando che «il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo, Galileo, appena si mette a parlare della Luna innalza la sua prosa ad un grado di precisione e di evidenza ed insieme di rarefazione lirica prodigiose. E la lingua di Galileo fu uno dei modelli della lingua di Leopardi, gran poeta lunare...».
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