«Genova, Marsiglia, Valenza in Spagna, Armenia, Dover. Poi Montevideo, poi Buenos Aires. Ci siamo presentati all’emigrazione, in treno siamo andati nella pampa a Montemiele, c’erano tanti italiani, tutti contadini. Per noi l’America era come l’Italia». Giovanni Forzano, cuneese classe 1887, racconta così allo scrittore e partigiano Nuto Revelli la sua partenza per l’Argentina. Come si legge ne Il mondo dei vinti (Einaudi, 1977), il signor Forzano è partito a 26 anni insieme alla moglie, sono rimasti in Argentina per tre anni, lui lavorava in campagna mentre lei «faceva la serva alla padrona». Poi hanno deciso di tornare tra le montagne piemontesi e con i soldi guadagnati in Argentina hanno comprato un pezzo di terra. I coniugi Forzano, quindi, hanno fatto rientro a casa, ma c’è anche chi è rimasto dall’altra parte dell’Oceano Atlantico per sempre, esportando la sua quotidianità come se non fosse mai andato via dal Piemonte.

Dagli anni Ottanta dell’Ottocento i prezzi dei prodotti agricoli iniziarono a calare bruscamente, causando disoccupazione, fame e miseria nelle campagne. I primi a pagarne le conseguenze furono proprio i contadini. In quegli anni tanti decisero di partire, sperando di trovare lavoro e garantire a sé e alla propria famiglia condizioni di vita migliori. Si stabilirono prevalentemente nelle province argentine di Córdoba, La Pampa, Santa Fe ed Entre Ríos, dove si dedicarono in particolare al lavoro nei campi. Per molti fu una scelta quasi obbligata. Come ha scritto Nuto Revelli, in quel periodo «l’emigrazione era l’unica via di scampo, l’unica strada della speranza, l’unica scelta di civiltà di cui il contadino povero disponeva».

E così l’Argentina è diventata la loro nuova casa. In quelle pianure sterminate hanno iniziato una vita diversa, ma senza dimenticare mai quella precedente. Hanno portato con loro le tradizioni del Piemonte, dal dialetto alla cultura, soprattutto quella gastronomica.

Il bonèt della nonna

«Ogni provincia argentina celebra la Giornata del migrante piemontese. Noi di Entre Ríos festeggiamo il primo luglio, a Mendoza, una provincia ai piedi delle montagne di Los Andes, festeggiano il 16 agosto. E ogni festa si svolge nello stesso modo: bagna cauda, pasta e vin brulé». Dulce Mastricola ha 51 anni, tre figli ed è nata in Argentina, ma ha origini piemontesi. Il nonno, Michele Camusso, era di Roletto, un comune di quasi duemila abitanti nella città metropolitana di Torino e si è trasferito nel 1889 con la famiglia nella provincia di Entre Ríos, dove ha acquistato un campo che oggi è gestito Dulce e le sue sorelle.

«Mia sorella Rosy è un po’ più grande di me e si ricorda che nonna Luisa, la mamma di mio papà, faceva un dolce tipico piemontese. Era una sorta di budino al cioccolato e lei lo chiamava “bonèt”», racconta la signora Mastricola. Uova, zucchero, latte, liquore e amaretti, cotto in forno a bagnomaria, il bonèt, o bunèt, è ancora oggi uno dei dolci tipici della tradizione piemontese. Una volta era il fine pasto perfetto durante le feste contadine, oggi viene preparato dalle nonne per il pranzo della domenica ma si trova sempre di più anche nei menù dei ristoranti rivisitato con l’aggiunta di caffè, caramello, curcuma o granella di mandorle. Ma non è l’unico piatto piemontese diffuso in Argentina: «I piatti tipici che facciamo li abbiamo imparati da nonna Luisa e da mia zia Juana, una delle sue sorelle. Facciamo il panettone e il vitello tonnato, sarebbe tradizione farli a Natale, ma io li preparo tutto l’anno».

Una testa d’aglio

«Il mio piatto preferito piemontese è la bagna cauda, lo mangiamo con tanti tipi di verdure. Quello che ci manca è il vino delle Langhe, purtroppo non l’ho mai assaggiato», racconta Matias Alejandro Frola. Il signor Frola ha 37 anni e lavora tutto il giorno sotto il sole nei campi a Colonia Marina, un paese di circa mille abitanti nella provincia argentina di Córdoba. I suoi bisnonni erano piemontesi, di Verolengo, in provincia di Torino, e sono arrivati in Argentina nel 1893.

Le origini della bagna cauda non sono chiare, anche se è probabile che fosse servita già nel tardo Medioevo per festeggiare la spillatura del vino nuovo nelle campagne del Piemonte meridionale. Olio, acciughe e soprattutto aglio sono gli ingredienti del cibo tradizionale con cui i piemontesi sono conosciuti anche fuori dai confini italiani. Per molto tempo la bagna cauda è stato il piatto dei poveri soprattutto a causa della grande quantità di aglio che conteneva. La ricetta originale infatti prevede una testa di aglio a persona, non così facilmente digeribile. Ma come sempre esistono i segreti della nonna per renderla più leggera: togliere l’anima dagli spicchi e lasciare riposare l’aglio tre o quattro ore nel latte prima di cucinarlo.

In Argentina la bagna cauda è una tradizione sentita, tanto che a metà luglio da più di 45 anni a Calchín Oeste, un paese di 700 anime sempre in provincia di Córdoba, si tiene la “Fiesta nacional de la bagna cauda”. Durante la festa circa 2.500 persone si trovano a condividere quel piatto povero, che i nonni piemontesi tante volte avevano mangiato immersi tra le montagne di casa. «In occasione della festa si mangia la bagna cauda con diversi tipi di verdura, come peperoni, cavolfiori, patate e patate dolci e si fanno balli piemontesi. È una festa fondamentale per conservare le radici dei nostri antenati», racconta il signor Frola.

Come una volta

Le ricette che ancora oggi fanno vivere la tradizione piemontese in Argentina hanno una sola regola: devono essere preparate come lo facevano le nonne. «Le nuove generazioni stanno un po’ dimenticando le loro origini piemontesi. Oggi sentiamo quelle radici ancora vive, ma è probabile che con il tempo si andranno un po’ perdendo, come sta accadendo con il dialetto: una volta lo parlavamo tutti ora solo più gli anziani», aggiunge Frola. Per questo motivo cerca di tramandare ciò che ha imparato dalla sua famiglia, a cominciare dal salame casero, cioè fatto in casa. «Lo facciamo come lo facevano i nostri nonni piemontesi, usiamo la ricetta originale partendo dalla carne suina o bovina. Poi sale, due cucchiai di pepe ogni venti chilogrammi di carne e due cucchiai di noce moscata. Aggiungiamo vino con chiodi di garofano e aglio, poi si impasta bene, si insacca ed è fatta».

Portare in tavola i piatti tipici dei propri nonni non è solo una questione di abitudine, è una scelta che ha a che fare con il desiderio di non dimenticare. «Per me e per tanti altri argentini con origini piemontesi conservare questa cultura è molto importante», conclude Frola. «Sapere da dove uno viene aiuta a sapere dove uno andrà. Ed è un modo per conservare il ricordo dei nostri nonni piemontesi che con tanti sacrifici lasciarono le loro case, arrivarono in Argentina a lavorare, a crearsi la propria famiglia e una nuova vita».

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