La democrazia non è un destino univoco della modernità, e potrebbe esserne solo un episodio. Carlo Galli, il più filosofo tra i nostri politologi, analizza le condizioni presenti dei regimi democratici alla luce delle esperienze del passato.
Quando nel 1989 è cadde il muro di Berlino fummo in molti a pensare che per la democrazia si aprisse una stagione radiosa, sia nel senso che sarebbe stata possibile una sua diffusione nel mondo, là dove la democrazia non c’era mai stata o aveva cessato di esserci, sia nel senso di un suo rigoglio nei paesi che in democrazia vivevano.
Quasi trentacinque anni dopo, ben poco di quelle speranze, o illusioni, è ancora in piedi, nell’un senso e nell’altro. In Europa, paesi che sembravano avviati sulla via dei regimi democratici hanno subito pesanti involuzioni in senso opposto, scivolando verso l’autoritarismo delle cosiddette “democrature”, in cui l’involucro della democraticità non riesce a nascondere l’anima dittatoriale.
I tentativi di esportare la democrazia con la forza delle armi, dove era merce ignota, sono prevedibilmente naufragati. E se qualche paese extraeuropeo ha fatti passi verso la democrazia, la crisi ha finito per contagiare anche paesi che la conoscevano da decenni, o addirittura da secoli.
L’assalto a Capitol Hill dei seguaci di Donald Trump non ha solo smentito la tesi di Marx, che gli eventi storici si presentano una prima volta come tragedia e una seconda come farsa, perché qui la farsa e la tragedia sono andate insieme: ha anche messo tutti di fronte alla possibilità che la democrazia venisse sovvertita persino dove credevamo avesse le radici più profonde. È fiorita così quella che orami è una nutrita letteratura sulla fine della democrazia, sul suo svuotamento, sulla post-democrazia, la democrazia illiberale, la democrazia S.p.A. e, ossimoro supremo, la democrazia oligarchica.
La democrazia non è un destino
Da questa letteratura il libro di Carlo Galli, Democrazia, ultimo atto? (Einaudi 2023), si distingue non solo per la scelta di dare all’analisi politica tutta la profondità storica che essa richiede, ma anche per la determinazione a non chiudere lo spazio all’impegno possibile per la democrazia, seppellendolo sotto l’ineluttabilità di una diagnosi nefasta.
La democrazia, più che un destino, resta un dovere. Non è una necessità storica, non ha dietro di sé nessuna garanzia provvidenziale; è piuttosto un episodio della modernità che il suo esito inevitabile. Siamo talmente abituati ad associare significati positivi alla democrazia che tendiamo a dimenticare che la parola stessa “democrazia” ha avuto fino alla metà dell’Ottocento un senso negativo, denigratorio. Ancora per Kant indicava un difetto, non un pregio del regime politico. La democrazia, inoltre, non è uno stato perfetto, un ideale realizzato: non esiste democrazia in senso assoluto, la democrazia essendo sempre un’approssimazione e non un raggiungimento.
Appunto se guardiamo al passato scopriamo subito quanto le forme storiche della democrazia siano rimaste lontane dalla realizzazione di una completa partecipazione democratica. I regimi liberali che si sono fatti strada nell’Ottocento, e che pure hanno creato in gran parte le cornici istituzionali della democrazia, i parlamenti, i partiti, la separazione dei poteri, il dibattito pubblico, escludevano dalla partecipazione democratica buona parte della loro popolazione: le donne, gli analfabeti, i non abbienti, e solo lentamente sono arrivati al suffragio universale maschile.
Galli mostra in modo incontrovertibile come la grande crisi delle democrazie europee dopo la Prima guerra mondiale, quando gran parte dell’Europa occidentale cadde sotto la dittatura, si originò dalla incapacità di quei regimi, pur formalmente democratici, di includere le masse popolari in un sistema socialmente coeso, lasciando così che le masse potessero riconoscersi in un Capo, anziché nelle istituzioni liberali. L’incontro fra democrazia e liberalismo fu un incontro mancato proprio in quell’Europa che aveva inventato entrambi.
Il risultato è stato che la democrazia è tornata in Europa, dopo la sconfitta del nazifascismo, come merce d’importazione, come un prodotto essenzialmente anglosassone. La liberaldemocrazia o socialdemocrazia che ha retto gli stati dell’Europa occidentale, tra il 1945 e il 1975, i “Golden Thirty” in cui la libertà è venuta a patti con l’eguaglianza, in cui la società civile ha saputo articolarsi in una serie di soggetti (partiti, sindacati, associazioni) senza spaccarsi, è stata un’epoca di benessere alla quale Galli guarda con percepibile anche se velata nostalgia. Ma è stata anch’essa, come sempre la democrazia, un equilibrio instabile, un parallelogramma di forze destinate a scomporsi. E in realtà aveva già al suo interno, agli occhi di Galli, due elementi contraddittori. Quello, inevitabile, di non poter essere che occidentale, la poneva in contrasto con l’aspirazione universalistica che la democrazia porta con sé; l’altro, più recondito, di demandare l’uso della forza, e la decisione della guerra, a una potenza esterna, la privava del controllo sulla dimensione pura della politicità, che, ci ricorda Galli (non per nulla il più autorevole interprete di Carl Schmitt), resta una dimensione inaggirabile nella vita degli Stati.
L’equilibrio instabile delle socialdemocrazie si rompe al finire degli anni Settanta sotto la spinta delle crisi economico-finanziarie che prendono le forme della stagflazione (stagnazione economica unita ad alta inflazione), disoccupazione, crescita fuori controllo della spesa pubblica. La risposta non venne dalla socialdemocrazia, ma dal capitalismo che trovò in sé l’energia per un modello nuovo di società, quella che Galli ha buon gioco a denominare democrazia neoliberista. Fiducia in sé stessa, euforia espansiva, globalizzazione, innovazione tecnologica sembrano caratterizzare questa democrazia, che comprime i diritti soggettivi di natura socioeconomica pur lasciando spazio a quelli individuali e civili.
La democrazia, però, resta un dovere
Dopo l’euforia, però, è in agguato la disforia; dopo l’entusiasmo, il disincanto. Il Ventunesimo secolo revoca molte di queste certezze e fa emergere sempre di più quella carenza di partecipazione popolare che della democrazia moderna non può che essere l’anima. Gli eventi traumatici più recenti, pandemia, guerra, inflazione, finiscono per esacerbare tensioni che già si erano manifestate segnalando le debolezze della forma che sta assumendo la democrazia. La più evidente è la crisi dei partiti tradizionali.
Quando Norberto Bobbio, all’inizio degli anni Ottanta del Novecento, si interrogava sul futuro della democrazia indicava nella invadenza dei partiti e nella loro burocratizzazione il rischio più grande. Oggi vediamo il contrario, la perdita di centralità di partiti e parlamento, l’astensionismo elettorale diventato ormai maggioritario; e, di contro, le fiammate populiste e l’innamoramento sempre più transitorio ed effimero per il leader di turno. La mediazione sociopolitica del partito tende ad esser soppiantata dal potere mediatico e dalle comunicazioni social.
In queste analisi la capacità di ricostruzione storica di Galli si salda con l’analisi sociologica di stampo francofortese, adorniano. Ma, pur nel disincanto e, a tratti, nella indignazione, non ne condivide l’esito paralizzante. Di fronte a chi ritiene che la tecnica onnipervasiva, capace di sostituire l’automatismo all’autonomia, il controllo attraverso i big data alla scelta del singolo, segni necessariamente la chiusura di ogni spazio di democraticità, Galli può ricordare che è necessario trovare soluzioni politiche, non tecniche, «cioè contrapporre un diverso potere al potere che si serve della tecnica».
A chi ritiene impossibile opporsi alla società data driven e alla omologazione dei prodotti dell’intelligenza artificiale, Galli può ricordare che l’IA non è che riproduzione del mondo come è, del già-pensato e del già-detto, e in quanto tale è l’opposto della riflessività, della capacità critica, dell’innovazione, della libertà.
A chi ritiene irreversibile la marginalizzazione del discorso critico e del ruolo degli intellettuali, Galli replica che «solo l’incessante opera della critica è la dimensione in cui la speranza della democrazia può oggi sopravvivere», e auspica perciò che si apra una nuova stagione dell’impegno pubblico degli intellettuali. Non sappiamo quanto questo auspicio sia destinato a realizzarsi; ma certo questo libro è insieme un esempio e un passo verso la sua realizzazione.
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