La storia della discriminazione dei rom è anche una storia di una ingiustizia e discriminazione a scuola. Da sempre si è pensato di isolare le comunità rom, come se fossero “speciali”. Oggi questo continua a avvenire in modo informale: due terzi degli studenti rom non prendono la licenza media.
Nel giugno del 2018, mentre Matteo Salvini e Giorgia Meloni chiedevano misure idonee a risolvere una presunta “questione nomadi” sul territorio italiano, alcuni studenti iscritti al Centro di istruzione per adulti di Roma, affrontavano il loro esame di terza media. Fra questi, molti erano di origine rom e vivevano nei campi, campi istituzionali – come si dice – regolamentati tuttora dall’amministrazione capitolina.
La storia delle comunità Romanes in Italia è, tra le altre, anche la storia dei rapporti intercorsi fra i minori di quella comunità e le istituzioni scolastiche italiane, una storia di discriminazione e sofferenze. A partire da un equivoco semantico, brutalmente sintetizzato da Meloni stessa («se sono nomadi, devono nomadare»), che vede nel nomadismo un tratto culturale imprescindibile di quelle comunità. Del resto, fino al 2015, nelle rilevazioni del ministero dell’Istruzione, i bambini italiani di origine rom figurano all’interno della sezione alunni nomadi.
Una categoria omogenea?
La tendenza secolare dell’autorità pubblica, anche in Europa, considerare i rom come una categoria omogenea, accomunata essenzialmente da tratti quali l’antisocialità, l’extra-legalità e il nomadismo, ha avuto una serie di conseguenze anche sul piano educativo. Dal XVII secolo in poi le politiche puramente repressive degli Stati nazionali nei confronti dei gruppi rom presenti nel continente si alternarono a politiche di assimilazione forzata rivolte ai minori rom. Nel 1782 fu promulgato il De regulatione zinganorum, con cui Giuseppe II d’Austria volle “risanare i costumi dei minori rom”, che consentì l’allontanamento dei minori dai propri genitori sin dal quarto anno di età.
Secondo il ricercatore Luca Bravi fu proprio nel secolo illuminato che si posero le basi del concetto di asocialità zingara: «L’educazione di stato si rivelò un nodo fondamentale nel passaggio verso la persecuzione di rom e sinti sia nel nazismo che nel fascismo italiano».
Dal 1928 – anno in cui Mussolini dichiarò «ebrei e zingari spie dello Stato italiano» – venne avviata la deportazione dei gruppi rom nei campi. Tra le varie testimonianze raccolte da Bravi, c’è quella proveniente da un’area di internamento esclusivamente per rom e sinti nella cittadina di Agnone, in Molise. Creata dentro un ex-convento, venivano ammassate decine di famiglie rom. Il direttore del campo, Guglielmo Casale, aveva previsto l’istituzione di una scuola per «rieducare alla disciplina e alla fede nel Duce» i bambini rom. Il campo di Agnone chiuderà con la firma dell’armistizio del settembre del 1943.
Se le migrazioni del popolo rom erano state nei secoli spiegate da fattori “interni” quali la spinta al nomadismo, una straordinaria capacità di adattamento e mestieri itineranti, gli eventi catastrofici dopo la Seconda guerra mondiale spinsero questi popoli a nuove, inevitabili, migrazioni. Sui numeri dei rom in Europa in quel periodo non si hanno stime certe, si parla di 200-280mila Rom che si sono spostati da est e ovest, in particolare in Germania, Austria e Italia. In Italia l’universo delle comunità rom si fa più ampio e variegato. Quando si fa riferimento alla “recente” migrazione rom si parla dei gruppi scappati dalla dissoluzione dell’ex Jugoslavia. Accanto a questi, vi sono anche i rom romeni che, in quegli stessi anni (1990-1995), si stabilirono in Italia.
Le classi speciali
Durante le prime regolamentazioni delle aree-sosta in diverse regioni d’Italia, l’esperienza delle classi speciali ideate da Opera nomadi con il Miur, denominate classi Lacio Drom, videro i minori rom accedere a un’istruzione separata e “speciale” a partire dagli anni Sessanta. La missione educativa nei confronti dei bambini rom fu assunta in toto dall’associazione e, come scrivono Luca Bravi e Nando Sigona, si concentrò ben al di là della “semplice” scolarizzazione.
Il disciplinamento dei centri di sosta, secondo i volontari dell’Associazione avrebbe permesso anche la possibilità di orientare positivamente una cultura dove «i condizionamenti tradizionali del gruppo, quali il sesso, il culto dei morti, la religione, rendono difficile l’evoluzione dello zingaro e la sua maturazione sociale. (…) A causa della sua cultura lo zingaro è in ritardo, è un bambino che deve essere aiutato a crescere, a recuperare il suo gap».
Le classi Lacio Drom rimasero attive fino agli anni Ottanta e fino agli 2000 in maniera informale, quando, una nuova visione interculturale favorì l’integrazione e l’espletamento della scuola dell’obbligo, a condizioni eguali rispetto agli altri bambini.
Le convenzioni scolastiche con l’Opera nomadi non vennero più rinnovate. Le conseguenze di quella tendenza pedagogica alla “deculturazione” ebbero effetti duraturi anche all’interno della scuola pubblica. Sergio Bontempelli, nel suo recente volume I Rom. Una storia chiarisce bene come le culture dei rom non erano – né sono – semplicemente un «deposito di tradizioni ancestrali: si sono modificate nel tempo, adattandosi ai contesti e alle circostanze. La tesi della “deculturazione” ridefiniva in termini etnici un problema che era soprattutto sociale».
Disuguaglianze
A oggi, rispetto all’epoca non così lontana delle classi speciali, molto è cambiato. La maggior parte dei cittadini di origine rom in Italia non vive più in aree-sosta o campi, ma in abitazioni convenzionali e l’esclusione de iure a cui bambini e bambine erano sottoposte a scuola è, anche se con colpevole ritardo, stata abolita.
Al netto di ciò, le disuguaglianze in termini di accesso ai diritti fondamentali persistono in maniera preoccupante, soprattutto per chi è costretto a vivere in condizioni abitative precarie e in campi istituzionalizzati già più volte messi sotto accusa dall’Unione europea. Dall’ultimo rapporto dell’Associazione 21 luglio, sappiamo che sono circa 13mila persone su una popolazione che approssimativamente si aggira attorno ai 180mila. E, come è sempre avvenuto nella storia, anche oggi l’accesso alla scuola è condizionato dai luoghi dell’abitare.
Vivere in un campo o in un quartiere isolato, progettato dall’amministrazione come luogo etnicamente identificato e identificabile ha, tra i vari costi sociali, anche quello di ostacolare una qualsiasi continuità scolastica. Secondo uno degli ultimi rapporti realizzato dall’Istituto Innocenti per il Miur, il 68 per cento dei bambini e delle bambine di origine rom lascia prematuramente la scuola e solo il 18 per cento raggiunge i livelli più alti di istruzione. Alle medie questo strappo si fa più evidente: il 65 per cento dei minori non conclude il ciclo.
Ascoltando la testimonianza di Stefania Bevilacqua, studentessa universitaria calabrese di origine rom, che ha vissuto tutta la sua infanzia in un campo di Cosenza, emergono due ordini di problemi: il primo è sostanzialmente politico e riguarda la progettazione di uno spazio urbano, o per meglio dire extra-urbano, isolato ed escludente, abitato solo da alcune comunità. Questo porta centinaia di bambini a vivere lontano dai servizi essenziali, dal tessuto cittadino e, quindi, dai propri possibili compagni di scuola. Questo accade in molte regioni italiane tra cui il Lazio che detiene il numero maggiore di campi formalmente progettati dalle diverse amministrazioni comunali.
Accorgersi
L’altro problema è di ordine formativo e investe la scuola italiana nella sua incapacità di – cito la ricercatrice Silvia Carbone – «accorgersi dei minori rom».
Bevilacqua racconta come da un lato, molte famiglie rom in Calabria abbiano paura di mandare i propri figli a scuola a causa di continue e persistenti forme di discriminazione e dall’altro molti docenti finiscano per richiedere una visita specialistica poiché si riscontrerebbe una qualche forma di disabilità nel minore: «Ma la verità è che questi bambini non ne hanno bisogno e che le difficoltà che hanno a esprimersi, nei primi anni scolastici, derivano piuttosto dal fatto che la loro esistenza si svolga esclusivamente nel campo e la loro lingua a casa sia soprattutto il romanès o il dialetto locale».
E poiché è proprio la scuola il luogo dove può avvenire una contaminazione positiva e rigenerativa, allora è bene che i dirigenti scolastici e il corpo docente stesso siano informati e formati in maniera adeguata.
Questa è la fotografia di un diritto allo studio tutt’ora frammentato e condizionato dal peso di una storia che fatica a cedere il passo al presente. Un presente fatto ancora di ghetti e scelte politiche classiste e xenofobe, e di bambine e bambini che vorrebbero, semplicemente, andare a scuola.
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