Il monopolio editoriale globale ha consolidato un tipo di scrittura neutro, un super genere che li racchiude tutti. Operazione bestseller, un saggio di Valentina Notarberardino, scatta una foto implacabile della situazione
È sotto gli occhi di tutti che il monopolio editoriale globale – pochi gruppi e sigle e agenti dettano l’agenda letteraria mondiale – è andato scoprendo e consolidando un tipo di scrittura neutro, centrato molto sul “cosa” e poco sul “come” (l’agenda dei temi letterari è dettata puntualmente dalla società, ridotta a sua volta a tg, talk show, rotocalco politico), che fa della variazione narrativa l’unico comandamento da perseguire: una sorta di super genere che si muove trasversalmente rispetto ai generi convenzionali e che in qualche modo riesce a racchiuderli tutti, dal rosa al thriller, dal romanzo storico al fantasy.
Quando si parla di bestsellerismo ci si riferisce a questo fenomeno, in grado di fare dei numeri pazzeschi su un mercato aperto, sovranazionale.
Si parla di milioni di copie, quando la lettura è sempre stata un fenomeno elitario, che quasi mai ha riguardato le masse. Si potrebbe arrivare a dire, con un paradosso veritiero, che non si è mai pubblicato più di oggi e letto meno di oggi.
Operazione bestseller
A questo e a molte altre cose pensavo leggendo Operazione bestseller di Valentina Notarberardino, un manuale che come tutti i manuali è piacevole anche solo sfogliare, fermandosi qua e là dove la curiosità trattiene lo sguardo, edito da Ponte alle Grazie.
Notarberardino, che da anni lavora nel settore editoriale, è bravissima a ordinare voce per voce tutti i segmenti della filiera, e a snocciolare dati oggettivi che però sono in grado di suscitare una gragnola di riflessioni personali.
A partire da quelle dei molti addetti ai lavori che vengono direttamente interpellati – da Nicola Lagioia a Stefano Petrocchi – e che rendono il saggio, se ce ne fosse stato bisogno, ancora più leggero, divagante e divulgativo.
Si va dalle classifiche di vendita ai premi letterari, dai festival fino alla comunicazione social, senza dimenticare i costi del libro e gli anticipi agli autori. Ogni aspetto del poliedrico mondo editoriale viene toccato, foss’anche per una sola pagina del trattatello.
Bisogna vendere!
Tutto il libro ha come sottotesto un unico, martellante, imperativo, che trovo molto in linea con l’aria del tempo. Non si tratta di dispute artistiche o estetiche, di poetica o di qualità, ma tristemente di vendita. Fin dall’eloquente titolo, si capisce che tutto questo gran penare della filiera editoriale, tutto questo lavorio, nasce e si sviluppa per una cosa sola: centrare il bestseller, vendere.
Ogni altra questione non dico che sia esautorata dall’orizzonte culturale odierno, ma viene lasciata tristemente in secondo piano.
E allora, vediamo, cosa sarebbe questo benedetto bestseller? Notarberardino ce lo spiega subito, all’inizio: patti chiari e amicizia lunga. «A volte il termine è usato impropriamente, diciamo che in Italia nel 2023 un libro è un bestseller se vende dalle 50.000 copie in su».
Una definizione che coincide con una cifra numerica, più chiaro di così… Ma il libro, se parte da una concezione bestsellerista, è già diventato qualcos’altro. L’industria si nasconde dietro la foglia di fico dell’intrattenimento: che male c’è in fondo nell’intrattenimento? Inoltre, ed è vero, esiste un intrattenimento stupido ma anche un intrattenimento intelligente (il caso limite è il nostro più famoso bestseller all’estero, il colto e divertito Il nome della rosa).
Però la letteratura, anche quando vendeva poche centinaia di copie, è sempre stata d’intrattenimento. Per secoli, quando ancora non esistevano le soap opera né le sit-com né le fiction, tutto l’entertainment è ricaduto sulle spalle della letteratura. Chiunque legga Ionesco ad alta voce si divertirà da matti, oltre a riflettere sulla sostanziale assurdità della natura umana.
Quando si parla di bestseller non è giusto quindi parlare solo d’intrattenimento, bensì di scritture da classifica, cioè di scritture di consumo che per essere appetibili devono gioco forza appiattirsi su altre forme di svago massificate. Ma non si tratta di giochi sperimentali di contaminazione tra alto e basso, tra modelli letterari e passatempi pop.
Si tratta di prendere una scorciatoia che spesso ha fatto smarrire il cammino. Un libro dopo tre settimane è vecchio, la rotazione è implacabile, e l’unico criterio estetico rimasto è, appunto, quello quantitativo: se vende è bello.
Un blurb gigantesco
In questa guerra alla copia in più, è normale che la filiera nevrotizzi competenze che prima erano importanti ma non fondamentali, e che oggi vivono quasi di vita propria. Con inversioni perniciose tra il fiume e i suoi affluenti.
Non è più la comunicazione a servire il libro, ma il libro a servire la comunicazione. I famosi blurb, cioè le fascette promozionali, sono solo la punta dell’iceberg della pubblicità editoriale: ormai fanno quasi tenerezza.
Nate per attirare l’attenzione proprio perché le si voleva come un elemento aggiuntivo dell’oggetto libro, adesso si sono inflazionate e non fanno più notizia. Il vero aspetto inquietante è che ormai tutto è diventato pubblicità: le recensioni sui giornali, spesso anche quelle che compaiono nei supplementi culturali più accreditati, somigliano sempre più a brochure degli uffici stampa, a depliant informativi.
Non c’è più tempo né spazio per un’analisi, conta solo la lode o la stroncatura. Se si vuole, le terze pagine dei giornali si sono internettizzate, e i critici si sono messi a servizio degli acquirenti rilasciando stringati feed-back (allo stesso modo semplici lettori stanno colonizzando le quarte di copertine dei libri con i loro giudizi prelevati direttamente dalla rete). D’altronde è anche vero che per la maggior parte dei bestseller un’indagine critica rigorosa sarebbe, oltre che dannosa e fuorviante, accessoria.
Il cambio di paradigma
Mai come oggi abbiamo la possibilità di metterci in vetrina. Se nel passato i nostri orizzonti erano delimitati dalla realtà, da quei pochi o tanti rapporti che si potevano costruire nell’ambiente circoscritto del lavoro e del dopolavoro, adesso internet ci ha dato molto più di un quarto d’ora di celebrità.
Per quanto riguarda i libri, bisogna dire che il marketing della rete è ancora più virale, e massicce campagne pubblicitarie vengono spacciate per innocenti passaparola partiti dal basso, dalla passione dei lettori.
Oggi la lettura da fatto privato si è trasformata in fatto pubblico. Si legge per poter dire di aver letto, basta farsi un giro su un qualsiasi social network per verificarlo. È normale quindi che tutti vogliano leggere il libro di cui si parla, quello che vende di più, perché così sarà più facile ottenere un’interazione nelle varie comunità virtuali, a discapito della bibliodiversità.
Accanto a delle precise scelte editoriali non più di progetto e culturali, c’è un cambiamento di prospettiva storico e direi antropologico. Nella lettura, ancor prima che nella scrittura.
Il problema dell’autorialità
Tornando al bestseller e a quella che sarebbe corretto chiamare cultura bestsellerista, di cui, forse involontariamente, lo studio di Notarberardino rappresenta una foto impietosa quanto nitida, bisogna chiudere con il problema dei problemi, cioè quello dell’autorialità.
Da una parte l’autore di bestseller fa di tutto per sparire dal testo, per portare in primo piano unicamente la storia (in modo che il suo lavoro si trasformi in una specie di libro pop up per adulti); dall’altra è importantissimo come firma, come brand per attirare la clientela.
Né la prima né la seconda circostanza riguardano ciò che classicamente s’intendeva per autore, cioè un artista in grado di gettare sulle cose un punto di vista originale, di raccontare il mondo attraverso uno stile (si pensi ai consigli di scrittura che Gustave Flaubert dava a Guy de Maupassant).
Quindi per i bestseller si potrebbe parlare di letteratura senza autorialità. E tutto questo molto prima che il prompt di un’intelligenza artificiale qualsiasi mettesse in discussione lo statuto stesso di autore.
© Riproduzione riservata