Dio, Patria e Famiglia. Della triade cara al conservatorismo di destra Alessandro Giammei si era già adoperato a decostruire il terzo termine, la famiglia, nel suo Cose da maschi e nella curatela di Dare la vita (il libro postumo di Michela Murgia). Ora, in attesa del primo, ha messo nel mirino il secondo, la patria: parola che ricorda insieme “patriarcato” e “patrimonio”. Stavolta è tornato al proprio campo di studi accademici, il Rinascimento, con un piglio innovativo chiaro già dal titolo e soprattutto dal sottotitolo: Gioventù degli antenati. Il Rinascimento è uno zombie (Einaudi).

Una patria, l’Italia, «nata l’altroieri», che ama esaltare il proprio «patrimonio culturale» come se fosse un patrimonio genetico – come se la Roma antica, e Dante e Petrarca e Michelangelo ci appartenessero per diritto dinastico, o di sangue. Giammei ha buon gioco nel mostrare che l’identità italiana è stata una costruzione culturale durata secoli: che Petrarca parlava toscano e provenzale e agli amici dotti scriveva in latino, o che il pavimento michelangiolesco del Campidoglio («ellittica rosa geometrica») è stato realizzato soltanto nel 1940 da un architetto fascista, Antonio Muñoz, che però era di origine catalana e che è partito non dai disegni di Michelangelo (andati perduti) ma dalla copia che ne fece un suo discepolo francese, Étienne Dupérac.

Il passato (quello italiano più ancora di altri) è un mosaico di etnie e di culture, «un prodotto dei tempi successivi e non il contrario». Da questo, passando alla politica contemporanea, Giammei ricava l’assurdità, da parte della destra, di rifiutare lo ius culturae privilegiando lo ius sanguinis. Il primo bersaglio polemico è il neofascismo (l’introduzione si intitola Fardelli d’Italia e non c’entra Arbasino), ma ci sono allusioni al ministro Valditara e a Daniela Santanchè; poi, allargando il tiro, l’etno-nazionalismo, il feticismo culturale e turistico, la xenofobia, i programmi ministeriali – tutto quello che semplifica arbitrariamente affermando una linea ereditaria diretta dove invece c’è un “rizoma” complesso. Insomma l’obiettivo del libro è «mettere in questione quel che si tende a fare in Italia per sentirsi italiani».

Le epistole

Giammei utilizza e fa fruttare tre documenti, che sono tre epistole. La prima è una lettera di Petrarca a Giovanni Colonna, suo nobile corrispondente romano, rievocante una loro passeggiata attraverso le reliquie della Roma classica; in quella lettera Petrarca si sente cittadino romano non perché come il suo amico ci fosse nato ma perché era innamorato di quel che Roma significava. Parla di quell’antica passeggiata al presente e addirittura all’imperativo (“vedi”, “guarda”); la sua non è un’esaltazione necrofila ma un’operazione negromantica, per riportare in vita quella grandezza e perché da essa Roma prenda ispirazione a risorgere destandosi dal proprio «sonno di morte».

La seconda è una lettera di Raffaello (probabilmente scritta da Baldassarre Castiglione) al papa fiorentino Leone X, figlio di Lorenzo il Magnifico; nella lettera Raffaello espone al papa un progetto, di catalogare l’urbanistica dell’antica Roma mediante uno strumento di rilevazione magnetica; la morte precoce gli impedirà di realizzare il progetto, ma è importante che anche in questo caso l’antichità sia vista in una prospettiva agonistica – conoscere per imparare a costruire come si sapeva fare allora.

La terza lettera è quella notissima di Machiavelli a Francesco Vettori, ambasciatore fiorentino presso il medesimo Leone X; è la lettera dove Machiavelli racconta del proprio esilio in campagna, della sua vita diurna in cui si ingaglioffa con la gente del posto, giocando e bevendo, fin che la sera si veste di panni “curiali” per conversare con gli antichi. Non è solo una faccenda di dress code, ma è rendersi conto che con gli antichi, invece di feticizzarli, bisogna dialogarci.

Giammei raccomanda lo «studioso amore» e sottolinea come la vera discendenza non sia biologica ma sia quella che si sceglie consapevolmente. C’è un po’ di provocazione nel sostenere che il David di Michelangelo riprodotto in migliaia di gadget è meno fedele alle proprie origini del David di Mike Caffee, in jeans e giacca di pelle, che ora si trova nel museo di Storia LGBT di San Francisco – provocazione non priva di plausibilità, se è vero che Michelangelo per il volto del David si ispirò al viso di un ragazzo atletico da lui amato, e che la stessa amicizia del David biblico per Gionata è stata spesso interpretata come amore carnale. Un Rinascimento queer? Machiavelli racconta di dialogare con gli antichi, e che quelli gli rispondono, e che lui si “transferisce" completamente in loro; Giammei ammette di amare molto quella – s - al centro della parola e il prefisso ‘”trans”, simbolo di mutazioni. Il passato bisogna farlo parlare come un morto ma vivente (appunto uno zombie); solo così può essere crogiolo del futuro, mentre monumentalizzarlo in un bene di proprietà lo immobilizza in un eterno presente. Come il “presente” che viene gridato dai neofascisti a braccio teso (o, aggiungo, gli innumerevoli “presente” incisi sui gradoni del sacrario di Redipuglia, 1938), “imbastardendo” l’attualismo gentiliano.

Gli zombie

Ci sono due modi opposti di rapportarsi agli zombie: o dissigillargli le labbra per ascoltare finalmente quel che hanno da dire, o usarli per «far dire ai morti quel che i vivi desiderano fargli dire». Se il Rinascimento è uno zombie, al primo modo corrisponde un «approccio filologico», al secondo un «approccio fascista». Per ragionare un po’ su questo punto vorrei partire da un fatto di cronaca, accaduto quando già il libro di Giammei era uscito: cioè la decisione di un insegnante trevigiano di esentare dallo studio di Dante i suoi studenti musulmani, “offesi” da come Maometto viene trattato nel canto 28 dell’Inferno.

L’insegnante era probabilmente bene intenzionato e favorevole all’integrazione; se la reazione della destra («giù le mani da un pilastro della nostra italianità») cadrebbe sotto le critiche di Giammei, nemmeno l’atteggiamento dell’insegnante è stato guidato da uno «studioso amore» – se avesse approfondito un po’ avrebbe visto che lì Maometto è messo come colpevole di scisma (Dante credeva alla leggenda secondo cui Maometto era un prete spretato e traditore), che altri musulmani in Dante stanno fuori dall’inferno e celebrati come “spiriti magni” (Averroè, Avicenna, perfino il Saladino uccisore di crociati), che la struttura stessa della Commedia deve probabilmente molto all’arabo Libro della scala, su un viaggio che Maometto compie nell’aldilà guidato dall’arcangelo Gabriele – insomma, abbastanza per inorgoglire uno studente musulmano.

Un approccio ignorante e feticista alla cultura non è fascista necessariamente, ma piuttosto retorico-celebrativo, o impaurito; è proprio della propaganda sovietica come delle parate in costume negli Stati Uniti, per non dire dei Funerali di Togliatti di Guttuso. E per un approccio “rivitalizzante” agli antichi forse bastavano i filologi e critici del Novecento senza tante pose trasgressive: Salvatore Settis e il riciclo delle rovine archeologiche, o Amedeo Quondam e Giulio Ferroni (maestri di Giammei alla Sapienza), o più indietro Giorgio Pasquali e Gianfranco Contini (che nel 1944 in Valdossola aveva stilato un piano di riforma scolastica anti-gentiliano).

Giammei dice di non voler tornare a fare il suo mestiere in Italia, perché non sarebbe più lo stesso mestiere. Ha ragione: insegna a Yale, nido del pensiero derridian-deleuziano in America, e gli toccano compiti di mediazione culturale. Per far capire il Rinascimento deve ricorrere ai videogiochi e ai film popolari, divertire raccontando che la Bocca della Verità che compare in una famosa scena di Vacanze romane è «un tombino che ce l’ha fatta», spiegare che esistono nostalgie al quadrato e al cubo (dai loro finti-Palladio al Gladiatore di Ridley Scott), e che un popolo vinto può affascinare il feroce vincitore.

È un visitor, lui romano de Roma, nel panorama rinascimento-centrico della cultura italiana in America, e se ne sente anche un po’ in colpa. Non osa dire che il Rinascimento italiano è “meglio” di tanti altri periodi in tanti altri luoghi, si rifugia dietro la nozione di relativismo culturale e di “impressione di valore”; giura che è solo la nostra abitudine e che l’arte mesopotamica del 2000 a.C. o la ceramica coreana del Quattrocento offrirebbero la medesima messe di osservazioni, spessori ed emozioni. Vorrei vederlo, insegnare storia della poesia bulgara.

© Riproduzione riservata