Mentre riconosco le competenze di Odifreddi, posso dire, da studioso di Dante, che sulla questione degli ultimi canti del Paradiso non ha centrato il bersaglio.
L’idea secondo la quale un progressivo irrigidimento ideologico sia riconoscibile soprattutto nel finale della terza cantica, e che questo possa essere attribuito al fatto che i tredici canti conclusivi sarebbero stati scritti dai figli del poeta, è priva di ogni fondamento.
È però anche la manifestazione di un atteggiamento da cui dobbiamo guardarci: quello di credere che una semplice lettura di un testo pluristratificato come quello di Dante basti a un interprete di oggi a capire tutto.
Ho sempre seguito con interesse i volumi di Piergiorgio Odifreddi, specie sul versante della divulgazione scientifica, e addirittura, molti anni fa, abbiamo tenuto un seminario per le scuole su letteratura e matematica, lavorando su Calvino, l’Oulipo e l’arte combinatoria, e seguendo un’idea di opera artistica non ingessata o sublime, bensì dinamica e ironica.
Mentre riconosco le competenze di Odifreddi, posso dire, da studioso di Dante, che sulla questione degli ultimi canti del Paradiso non ha centrato il bersaglio. L’idea secondo la quale un progressivo irrigidimento ideologico sia riconoscibile soprattutto nel finale della terza cantica, e che questo possa essere attribuito al fatto che i tredici canti conclusivi sarebbero stati scritti, e non solo ritrovati (come ci dice Boccaccio), dai figli del poeta, è priva di ogni fondamento, come peraltro è stato già notato. Vediamo meglio perché.
Le contraddizioni
In primo luogo, le testimonianze di Boccaccio vanno sempre vagliate con cura. Alcune sono del tutto accettabili, altre sono accurate ma magari fornite da testimoni non affidabili: è il caso di quella relativa alla composizione a Firenze dei primi canti dell’Inferno in un periodo antecedente all’esilio, che non funziona se si parla di sette (come fanno appunto i testimoni), ma ha invece delle controprove molto forti se si pensa ai primi quattro, allegorici e vaghi, diversissimi dal quinto, quello di Francesca e Paolo.
Quando però Boccaccio deve raccontare come è stata divulgata l’intera Divina commedia, si trova a dover assemblare informazioni molto diverse in suo possesso: da un lato gli è stato detto che i canti venivano divulgati a gruppi, poi inviati in particolare a Cangrande della Scala, ma forse non solo a lui; dall’altro ha capito che il Paradiso è stato pubblicato dai figli dopo la morte di Dante tra il 13 e il 14 settembre 1321, però non sa bene quando. Qualcuno gli riferisce, ma in questo caso lui stesso aggiunge di sicuro del suo, che il Sommo poeta sarebbe comparso in sogno a Iacopo o a Pietro (non si specifica quale sarebbe stato il figlio privilegiato) e solo allora, otto mesi dopo la morte, finalmente la grande opera sarebbe stata integrata degli ultimi tredici canti introvabili.
Peccato che Dante, in suoi testi latini sicuramente autentici, le Egloghe a Giovanni del Virgilio, dica con chiarezza che il suo poema sacro l’ha terminato poco prima della morte e lo condivideva tra i suoi amici ravennati, in primis il signore suo ospite, Guido Novello da Polenta. Proprio a quest’ultimo, e proprio otto mesi dopo la morte del poeta, Iacopo inviò di sicuro una copia completa della Divina commedia, che quindi, dati i tempi di copiatura dei manoscritti (specie se erano eleganti, come di sicuro questo), doveva essere già nelle mani dei figli da parecchio. Ecco una contraddizione evidente rispetto al racconto di Boccaccio.
Inoltre Iacopo scrive delle Chiose all’Inferno, probabilmente verso la metà degli anni Venti del Trecento, e non fa il minimo cenno alla riscoperta di canti, peraltro dimostrando di sapere poco o nulla di come il testo era stato concepito da suo padre. Non a caso, molte glosse sono sbagliate o copiate da altri commentatori. Iacopo e anche Pietro (nettamente superiore al fratello quanto a competenza letteraria, pur essendo di base un giurista) non sono affatto più informati rispetto ad altri lettori coevi della Divina commedia, come saremmo propensi a immaginare, e per di più, quando scrivono per conto loro poesie, mostrano limiti fortissimi, attestandosi spesso al di sotto di un livello dignitoso.
Queste cose i dantisti le sanno, e sanno anche perché invece Boccaccio ha proposto la storiella del ritrovamento: siccome il salvataggio in extremis di un’opera letteraria era un segno della sua importanza, com’era accaduto per l’Eneide salvata dal rogo cui Virgilio l’avrebbe destinata, allora anche la Divina commedia veniva nobilitata dal ritrovamento miracoloso che aveva consentito una sua diffusione integrale. Ma invece c’è più di un motivo di credere che i figli avessero tra le mani il Paradiso sin dal settembre 1321, e che non sarebbero stati minimamente in grado di scrivere i tredici canti finali, stando alle inabilità che dimostrano altrove.
Elevatezza senza pari
Perché, e qui sta un punto che Odifreddi non considera minimamente, nei canti finali del Paradiso ci sono parti di un’elevatezza e creatività mai raggiunte prima da Dante. Solo chi è insensibile alle questioni di stile non se ne rende conto, ma basta leggere la grande serie di metafore e similitudini del canto XXIII per avere ottimi esempi: «Quale ne’ plenilunïi sereni / Trivïa ride tra le ninfe etterne / che dipingon lo ciel per tutti i seni» è un paragone che ci illustra con una qualità timbrica perfetta (un trionfo di ‘i’) la levità di un nottuno con plenilunio. Nell’intero passo (vv. 25-33) si sintetizza un immaginario antico e pagano (la luna-Trivia e le stelle-ninfe) con quello cristiano, visto che questa luce lunare viene paragonata a quella di Cristo che si sta elevando verso l’Empireo, con i beati: e Dante sa bene che, su un cielo buio, spiccano ancora di più gli astri, quindi una componente di osservazione naturalistica viene messa al servizio della nuova immagine che il lettore deve in qualche modo inventarsi, quella di un Cristo su uno sfondo di luce (non buio), ma ancora più luminoso di quello sfondo.
Se poi andiamo all’ultimo canto, la capacità di ideare similitudini che ci avvicinino alla rappresentazione dell’essenza del Dio trinitario diventa somma, e addirittura (la cosa in fondo dovrebbe piacere a Odifreddi) porta Dante-personaggio a fingere di aver visto tre cerchi perfettamente sovrapposti eppure distinti, e poi di interrogarsi su come la fisionomia umana poteva innestarsi (ma viene coniato un neologismo, «indovarsi») in quella circonferenza: siccome si tratta di voluti paradossi, Dante invoca uno dei grandi problemi matematici che anche lui sapeva essere irrisolvibile, la quadratura del cerchio. Perché quella di Dante, sino alla fine, è una ricerca poetica per rappresentare tutto il creato, nonché il Creatore, basandosi aristotelicamente sulla forza dell’intelletto, che solo a pochi versi dal termine cederà alla folgorazione mistica.
Ipotizzare che questo potentissimo modo di usare la poesia per conoscere il reale (o quella che Dante pensava fosse la realtà fisica e metafisica, ovviamente ben diversa dalla nostra) sia il frutto della contraffazione di due modesti ingegni come quelli di Iacopo e Pietro è di per sé ridicolo. È però anche la manifestazione di un atteggiamento da cui dobbiamo guardarci: quello di credere che una semplice lettura di un testo pluristratificato come quello di Dante basti a un interprete di oggi a capire tutto, mentre invece, senza una prioritaria verifica filologica e una successiva analisi stilistica ravvicinata, si rischia di non capire niente.
Questo non vuol dire che i contenuti dell’opera di Dante non possano essere riadattati, perché in fondo la Divina commedia è un grande spartito con tanti temi. Ad arricchire questo spartito collaborano pure le rielaborazioni intelligenti, per esempio le illustrazioni o i video o le messinscena. La capacità mitopoietica della Divina commedia si basa su contenuti formati, che s’imprimono nella mente e però chiedono un completamento, dato che spesso sono del tutto ellittici: quanto di più avremmo voluto sapere su Francesca da Rimini e quanto abbiamo aggiunto nel corso dei secoli! Ma le elaborazioni stilistiche valgono persino riguardo alla materia più bassa: «Ed elli avea del cul fatto trombetta» è corporeità stilizzata, è un perfetto endecasillabo adattato alla situazione narrativa, non una battuta del Pierino di Alvaro Vitali.
Purtroppo, adesso sembra che, di Dante, contino solo gli slogan, più o meno arbitrariamente estrapolati dalle sue opere, oppure la biografia, di cui siamo destinati a sapere pochissimo rispetto a quello che vorremmo (senza contare che alcune biografie introducono più errori e forzature che non notizie corrette: basti guardare, per questo, quella di Paolo Pellegrini, già autore di presunti scoop danteschi, pubblicata da Einaudi nel marzo 2021). Invece, bisognerebbe soffermarsi anche solo su pochi versi della Divina commedia, oppure della Vita nova o delle rime come la terribile Così nel mio parlar voglio esser aspro, per capirne la densità e la ricchezza: e per non poter nemmeno più sognarsi di sognare che a finire il Paradiso siano stati i figli.
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