Non fu solo l’assassinio di un leader politico, evento già di per sé di portata storica; fu la rottura del patto sociale a fondamento dello Stato. La Dichiarazione d’indipendenza del 1948 aveva, bene o male, trovato un equilibrio fra principi universali e identità particolare condiviso dalle diverse componenti della cultura ebraica. L’attentato del 1995 segna la fine di quel percorso storico.
La storia, si suol dire, è scritta dalla parte dei vincitori. Tuttavia nel caso del popolo ebraico, fin dall’epoca biblica, l’affermazione va, in un certo senso, ridefinita. Sorge infatti la questione se non si consegua lo statuto di «vincitori» pure in virtù del fatto stesso di saper raccontare la propria storia. Per farlo, occorre una precondizione: continuare collettivamente a esistere di generazione in generazione. È indubbio che il popolo ebraico abbia influenzato la cultura mondiale assai più in virtù della storia da lui raccontata che in ragione di quella fattuale. Nel Vicino Oriente antico Israele fu una potenza regionale secondaria rispetto all’Egitto, all’Assiria, a Babilonia, alla Persia, all’Impero macedone, a Roma; tuttavia la Bibbia, che racconta numerose sconfitte subite dagli ebrei, ha inciso sulla storia mondiale ancor più di quanto abbiano fatto gli influssi, pur indubbi, derivati da grandi civiltà antiche.
In generale le vicende storiche ebraiche sono state contraddistinte, dopo l’epoca biblica, dal loro essere riferite a una minoranza (dal punto di vista quantitativo, gli ebrei sono sempre stati un «piccolo popolo»). Un celebre detto afferma: «Nessun uomo è un’isola».
Lo stesso vale per le culture. Il non essere circondati unicamente dal mare non esclude l’esistenza di confini; si tratta, però, di linee di demarcazione impossibili da definirsi da un solo lato, sono infatti oltrepassate, più volte, nell’una e nell’altra direzione. Fuor di metafora, la millenaria cultura ebraica è pensabile, dall’antichità fino a oggi, solo affidando un ruolo determinante alle relazioni da essa avute con altri popoli e ambienti.
All’interno di questo lungo fluire ci sono stati e ci sono però momenti di svolta. In particolare nelle vicende dell’Israele moderno esiste una data spartiacque: il 4 novembre 1995, quando il fondamentalista dell’estrema destra religiosa Yigal Amir uccise a sangue freddo Yitzchaq Rabin, il premier firmatario degli Accordi di Oslo con cui si era siglata la pace fra Israele e Palestina. Non fu solo l’assassinio di un leader politico, evento già di per sé di portata storica; fu la rottura del patto sociale a fondamento dello Stato. La Dichiarazione d’indipendenza del 1948 aveva, bene o male, trovato un equilibrio fra principi universali e identità particolare condiviso dalle diverse componenti della cultura ebraica.
L’attentato del 1995 segna la fine di quel percorso storico. L’assassinio mise in evidenza l’esistenza di un’intera galassia tradizionalista-religiosa che, nel punto di equilibrio faticosamente raggiunto dopo decenni di dibattito storicofilosofico, vedeva sacrificata la componente identitaria sull’altare dei moderni ideali liberali, che lo stesso universalismo biblico aveva contribuito a fondare. Sostenuto dallo sdegno dell’ebraismo tutto, lo Stato reagirà, così come aveva reagito fra il 1984 e il 1994 per eradicare il partito-movimento Kach e il suo fondatore Rav Meir Khane1: Yigal Amir verrà condannato all’ergastolo, da dove non ha mai mostrato alcun segno di pentimento. La piazza dove è avvenuto l’omicidio verrà intitolata a Rabin. Ancora oggi, su uno dei suoi muri è scritta la parola slichah, «scusa».
Il processo di polarizzazione sociale inaugurato da quell’efferato gesto non si sarebbe però arrestato.
Il 4 novembre e il 7 ottobre
Dalla sera dell’assassinio di Rabin si può dire sia iniziata una guerra civile strisciante fra una componente laica, legata agli ideali liberali occidentali, e una tradizionalista, in cui spicca un segmento religioso che pur trova ospitalità in uno Stato da esso, sovente, mai riconosciuto formalmente. Ben lungi dal restare chiuso nei confini israeliani, lo scontro si è esteso a tutto l’ebraismo mondiale, con sostenitori in diaspora per l’una o per l’altra parte: una tensione non facilmente riconducibile a una pura contrapposizione tra laici e religiosi.
La stessa figura simbolo di questa frattura, dominus della politica israeliana degli ultimi venti anni, Benjamin Netanyahu, espressione della destra laica del paese, ha sempre avuto nelle proprie compagini di governo partiti religiosi. Vanno però evitati facili schematismi; le cause della divisione appaiono profonde. Probabilmente si riassumono in un rapporto irrisolto dell’ebraismo con la modernità, nodo già palesatosi tra XVIII e XIX secolo con la presenza di identità ebraiche sospese fra Oriente e Occidente, emancipazione e tradizione, razionale e irrazionale.
Nell’Israele di oggi è sorta una frattura che si è tentato di gestire affidandosi a un perenne status quo, dove ognuno finiva col restare chiuso nel proprio modo di intendere l’identità ebraica, spesso concepita in antitesi rispetto ad altre maniere di declinarla. Questa situazione è stata tragicamente confermata tanto dall’efferato attacco del 7 ottobre 2023 portato da Hamas, quanto dalla conseguente, durissima risposta israeliana.
Non si può trascurare come la terribile aggressione, che ha preso di mira anche gli abitanti dei kibbutzim Be’eri e Kfar Aza, da sempre impegnati nella pace, non risparmiando nemmeno i neonati, sia avvenuta quando sembrava potersi stipulare la storica apertura delle relazioni diplomatiche fra Israele e Arabia Saudita, tappa importante di un processo di stabilizzazione dell’intera area mediorientale. In molti denunciavano l’irrisolta questione palestinese come il rimosso dell’intera traiettoria degli Accordi di Abramo con destinatario finale l’Arabia Saudita.
Con questo atroce attacco, Hamas è sembrata battere un colpo candidandosi a leader dell’intero popolo palestinese, da lungo tempo lacerato da una guerra civile interna aggravata dall’introiezione nei propri confini del più ampio conflitto che da decenni sconvolge il mondo musulmano.
Un conflitto costruitosi attorno alla faglia sciiti-sunniti, che ha favorito l’adesione delle masse deluse dai governi arabi e, in seguito agli sconvolgimenti mediorientali successivi alle guerre dell’amministrazione Bush, impaurite dall’insediarsi di governi percepiti come ostili, a gruppi fondamentalisti come al Qaida e Isis.
Nel mondo palestinese questo processo ha significato, nutrendosi del rancore dei giorni della prima intifada. Successivamente la Striscia di Gaza ha visto la penetrazione di gruppi legati alla variopinta galassia del Jihad islamico, anch’essi ritenuti partecipi dell’attacco del 7 ottobre. Se si parte da questa cornice, esistente ma non ancora consolidata negli anni della prima e della seconda intifada, l’efferato assalto è sembrato utilizzare Israele come sponda per lanciare un messaggio ai sauditi: nessuno pensi di stipulare accordi passando sopra la nostra testa. Ciò che sembra ripetersi eternamente uguale è lo schema azione/reazione che ha sempre condotto questo conflitto in una circolarità senza uscita.
All’attacco, che ha anche un legame con le profonde divisioni interne alla società israeliana, lo Stato ebraico ha risposto nel consueto modo dell’azione militare. Se inevitabile per garantire la sicurezza delle popolazioni al confine con la Striscia e per non offrire segnali di debolezza ai tanti nemici esterni, è anche la trappola su cui, da sempre, contano i gruppi terroristici per creare dolore fra la popolazione civile, sperando si traduca in consenso verso di loro.
Solo il tempo potrà illuminarci sui vari risvolti di quanto vediamo oggi, quando non abbiamo ancora una prospettiva storica che possa aiutarci a vedere l’insieme.
Il brano è un estratto dal libro Storia culturale degli ebrei (il Mulino, 2024)
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