- Il desiderio non è tutto rose e fiori. Per assurdo mi è venuto da pensarlo proprio in questo centro commerciale che, almeno teoricamente, è stato concepito come un’oasi di ristoro rispetto al mondo esterno.
- Il Femminile, stavo dicendo, teneva desta e teneva a freno la bramosia maschile. Vale a dire, la civilizzava.
- Ma gli altri vinti, quelli più giovani? Come la risolviamo con quel loro sottofondo aggressivo, fatto di confuso rancore, di frustrazione, di inimicizia? Cosa ne facciamo, allora, dell’intollerabile desiderio continuamente aizzato in uomini che non possedettero bellezza nella gioventù, né ambizione in seguito, né ricchezza mai?
Il desiderio non è tutto rose e fiori. Per assurdo mi è venuto da pensarlo proprio in questo centro commerciale che, almeno teoricamente, è stato concepito come un’oasi di ristoro rispetto al mondo esterno. Quel mondo di fuori così inospitale con noi vinti (con noi quasi tutti, in definitiva). Oggi invece sono pensieroso; difatti l’uomo alla cassa del bar esita. «Il caffè lo prende al banco?». Il mio cenno negativo. Poi mi accomodo con la fronte corrugata in uno dei tavolini sotto il grande lucernario, qui nella piazzetta centrale della shopville.
Pulsioni inappagate
Proprio no: il desiderio maschile non è tutto rose e fiori, abbiamo poco da sciogliere ditirambi libertari. Se le pulsioni restano inappagate – e non tutti hanno modo di soddisfarle, specie noi vinti – la faccenda si presenta noiosa. Direi peggio: dolorosa come una tensione muscolare. Prendi questo passaggio a sciami delle liceali, libere dalla frequenza scolastica e non più imbavagliate con le mascherine. Sono molto seduttive, non sanno quanto. Al contrario di certe madri che rivaleggiano con le giovanissime a colpi di scollature, tacchi, spacchi deliranti. Un delirio del tutto consapevole, in quel caso.
Sull’insana competizione estiva tra madri e figlie, nei centri commerciali, potrei scrivere una voce di enciclopedia. Ma non in queste condizioni: il fallo, per chi come il sottoscritto ne è ancora munito, si protende a vuoto, raspa all’interno dei pantaloni. Per rendere l’idea: un motore che ruggisce da fermo. Avete mai ascoltato un rombo più spaventevole e disperato? Le donne non possono capirlo a fondo. Il desiderio maschile lo esperiscono solo tramite fenomeni esteriori come l’erezione. La sofferenza del nostro desiderare, invece, si riesce a comprenderla solo dall’interno. Soggettivamente, voglio dire.
Una donna come potrebbe capire la nostra differenza? Ecco allora venirle in soccorso la letteratura. O, almeno, il raccontino che stai scorrendo caro lettore, preferibilmente lettrice. «Il caffè per lei». Il cameriere depone tazzina, piattino, cucchiaino. Un altro vinto. In sottofondo musichette varie, il ritornello dei jingle pubblicitari. «Anche un bicchiere di minerale, per favore».
Nonostante il condizionamento esemplare, le piante ornamentali lucide, lo zampillo della fontana esagonale, ho la bocca secca. Il che mi maldispone. Perché le femmine sono così inebriate dalla volontà di potenza della seduzione? Intanto evita di criminalizzarle per questo: la volontà di potenza maschile ha prodotto Hitler e Napoleone, andiamo! E poi il Femminile assolve semplicemente uno dei suoi compiti basilari: abbellire ed erotizzare la realtà. Quelle due trentenni al banco che sorbiscono le loro consumazioni ipocaloriche. Una passa le mani fra i capelli lisci, setosi. Lo fa per automatismo. Ecco qui: d’istinto, manco se ne accorge. L’amica si rallegra per qualche confidenza, inarca la testa, la sua gola illumina il mondo e mi fa andare di traverso il fondo di caffè. Reprimi la tosse, cerchiamo di non dare spettacolo! E non avercela con quelle due belle creature. Fanno il loro mestiere nell’economia del Creato, sono adorabili.
Non avere tempo
A questo proposito una mia amica – donna di mondo, anche sagace quando le conviene – una volta mi ha chiesto: «Sai perché noi donne non seguiamo il calcio?». Le sue lunghe gambe pallide, intenta a pitturarsi le unghie dei piedi. «Sai perché? Non abbiamo tempo». Affinché lo smalto color sangue di piccione non sbavasse sull’epidermide, lei adottava un sistema ingegnoso: un batuffolo di cotone fra dito e dito. «Capisci? Dobbiamo depilarci ogni tot. Stare attente alla ricrescita e provvedere a tingere i capelli in tempo. Non ti dico i sacrifici in palestra per avere un culo decente. E vai in giro per shopping. E prova, scarta, riprova. E le creme da spalmare la sera...Mi dici tu quando troveremmo il tempo per seguire quello sport inutile?».
In effetti il calcio – se ti identifichi con una maglia, con l’astrattezza araldica dei suoi colori sociali – è soprattutto una fonte di amarezze. Anche il desiderio, peraltro. E qui torniamo al punto iniziale: come la mettiamo con l’avvilimento del desiderio maschile, proporzionale alla sua intrinseca virulenza? Quei due vizzi ottantenni sulla panchina non sembrano darsene pensiero. Devo commiserarli, invidiarli? Sono lì, godono la frescura, ammiccano all’incedere di una bellezza che ancheggia sulle zeppe (voyeurismo maschile/esibizionismo femminile: la provvida Natura funziona per differenze e complementarietà, ovvio). Poi i due vegliardi prendono a motteggiare circa i rispettivi genitali. Malissimo: non si dovrebbe mai scherzare sui defunti. Ma non voglio polemizzare. Anche perché, in ogni caso, l’avanzata senilità non fa testo.
Chi e cosa fa testo, allora? Ma i ragazzi, perdinci! Me lo ricordo bene cosa significava l’estate, quando avevo dodici, tredici anni...Le ninfe dello stabilimento balneare e i loro occhi vacui, terribilmente fascinosi. Le loro forme in sboccio, ammirate dal vero e non solo vagheggiate sfogliando il catalogo Postalmarket che mamma non trovava più. I bikini, questo voglio dire essenzialmente. E i sessi di noi maschietti dritti come matite, il loro sfregare contro il tessuto ruvido degli slippini da bagno. Sofferenza. Il desiderio maschile è una massa di sofferenza cieca. Per alleviarlo noi adolescenti ci abbrutivamo e sfinivamo con un auto-erotismo compulsivo.
Poi si cresce, l’universo quasi onirico della masturbazione ce lo lasciamo cadere da dosso, come una vecchia pelle di serpente dopo la muta. Diventiamo giovani uomini, si ambisce alle giovani donne.
Dinamiche da discoteca
Allo scopo ci si accalca nelle discoteche, negli arenili dove si balla in massa. Certi autoscatti di gruppo, reperibili con un clic sui social, fanno accapponare la pelle come un urlo nella notte. Quei giovanotti smaniosi, sullo sfondo della pedana luminosa che galleggia nel buio. Diversamente da un tempo non possono promettere stabilità economica e prole, ancora a trentacinque e passa anni. Indossano delle camicie bianche sbottonate che già iniziano a spiegazzarsi. Ma non è quello il punto, non mi occupo di stiratura.
È il loro sorriso vitreo a preoccupare. Un rictus contraddetto dagli occhi, dilatati per la foia e mobili intorno: il loro campo visivo si allarga a tutta quella savana che pullula di gazzelle dai magnifici occhi delusi. Quei ragazzi avvertono l’impellenza di accoppiarsi per non scoppiare. Qui, subito, comunque sia purché la sofferenza del desiderio cessi.
Conosco l’obiezione, mia combattiva lettrice: «Non idealizzarci scrittorucolo. Tu pensi che noi donne non ci struggiamo dalla voglia?». Calma tigre, su questo non ho il minimo dubbio. Ma le ragazze che risplendono – agghindate e seminude – nelle formazioni miste di quelle foto possono pur sempre ripiegare su alcune scappatoie. Il ballo, ad esempio e la sua potente capacità di sublimare la libidine femminile. O il piacere narcisistico di vedere uomini che ti volteggiano intorno come falene assetate di luce. Riconoscilo se sei onesta, lettrice: la libido femminile, così improntata di esibizionismo, alle brutte può contare su queste vie di sfogo per alleviarsi. La tua vanità esaudita non è un mezzo orgasmo, mia onesta lettrice? Non è dolce quasi quanto una puntura di eroina? Pensa a quei giovani maschi, invece, per i quali il ballo è solo strumentale all’accoppiamento; l’accoppiamento che sempre, per l’uomo, fa cessare la sofferenza.
Intanto capisci bene che per quei gemebondi ragazzi in foto sono scoccate le tre di notte. Le camicie bianche si chiazzano, i pori trasudano testosterone. Loro sono zuppi della meravigliosa, atroce sofferenza indotta da menadi e naiadi che si dannano per erotizzare l’ambiente, conformemente alla missione assegnata loro dalla Natura (Dio ovvero Natura). Onestamente la faccenda si fa seria: quei giovanotti rantolano dalla voglia di consumare, un balbettio preverbale, rauco. Consumare sui sedili o sul cofano dell’auto. Copulare in piedi nei bagni della discoteca estiva. Perfino sulla sabbia disseminata di cocci aguzzi.
Duelli rusticani
Approfitta di me che ti parlo senza disoneste remore, mia perplessa lettrice: la concupiscenza maschile è semplicistica e difficilmente controllabile, proprio come il piacere maschile. Tanto all’espulsione del seme basta un quantitativo limitato di confricazioni. Di più: le pulsioni maschili sono cruente per natura, dunque pericolose. E non solo nei confronti delle femmine, ma anche rispetto ai rivali maschi. Ci si è sempre accoltellati, dalle taverne babilonesi ai disco-pub, per le grazie di una femmina. Il desiderio maschile è cruento in coerenza con la natura del suo portatore, capisci?
Se volessimo censire le vittime di quei duelli rusticani avremmo delle belle sorprese statistiche. Ma, come detto, non voglio polemizzare mentre godo il sistema di raffrescamento in questa shopville, un capolavoro di climatizzazione. Meno che mai ora, quando il mio bicchiere di minerale scintilla intatto nella chiarezza delle idee. Questa verità limpida come acqua naturalmente gasata: tutti i sistemi di convivenza umana, fino al 1968 d.C., hanno escogitato poderosi dispositivi culturali per disciplinare le pulsioni sessuali maschili. Per calmierarle senza soffocarle. A tale scopo l’abbigliamento doveva lasciar intuire, meglio ancora immaginare, il corpo femminile. Le donne venivano così a esercitare una duplice azione: di eccitamento e di regolazione nei confronti del desiderio virile. Piccoli colpi di acceleratore, sapienti affondo sul freno. Arte, equilibrio, dunque sforzo.
Trovare una soluzione
«Posso?». Il cameriere preleva tazzina e piattino. Povero deplorevole vinto, chissà come ne verrai fuori sabato sera? Il Femminile, stavo dicendo, teneva desta e teneva a freno la bramosia maschile. Vale a dire, la civilizzava. Prendi mia nonna e mio nonno, cara lettrice. Per ottenere un bacio da lei, nonno fu costretto a invitarla all’Opera; dovette apprendere il linguaggio dei fiori; sciropparsi una silloge di lettere d’amore sulle quali ricalcare le proprie. Il poveruomo dovette imparare perfino i rudimenti del ballo figurato e canticchiare alla sua bella una specie di serenata. Non ditemi che tutto ciò non implicava una pedagogia, un acculturarsi della tensione erotica, un’educazione sentimentale!
Il che, ovviamente, non è più possibile né pensabile nell’attuale configurazione dell’occidente: qui nessuno ha la minima voglia di civilizzare nessun altro. Così ora pochi privilegiati godono a oltranza, mentre molti vinti soffrono muti in questo bazar di fisici in bella mostra. E allora? Allora niente: intacco il mio bicchiere di minerale, è oramai tempo di dissetarsi. L’ascensore a vista trasferisce al livello superiore un gruppetto di ragazze in gonnellini a pois, tanto per dire. Istintivo mettere a fuoco la loro insolente freschezza, quella piccola foresta di gambe lisce e abbronzate. La loro sfacciataggine così vitale mi è simpatica, anche se la sofferenza del desiderio permane, sia pure relativizzata dalla mia mezza età. Ma gli altri vinti, quelli più giovani? Come la risolviamo con quel loro sottofondo aggressivo, fatto di confuso rancore, di frustrazione, di inimicizia? Cosa ne facciamo, allora, dell’intollerabile desiderio continuamente aizzato in uomini che non possedettero bellezza nella gioventù, né ambizione in seguito, né ricchezza mai?
Al momento non disponiamo di una soluzione al problema della voglia che si torce in sofferenza. Per di più ho terminato la mia consumazione e il gestore, visibilmente, auspica che mi decida a smammare. D’altronde penso possa farmi solo bene uscire dalla presa di questa shopville, guardando in terra e abolendo ogni visione laterale.
Attraversando l’immensa fornace del parcheggio, ripenso al fresco salmastro di una chiesa veneziana. San Zaccaria. La celebre pala di Giovanni Bellini mi chiama a sé, ora più che mai. Madonna con Bambino, con santi ai lati e, più in basso, un angelo musicante. La bellezza luminosa e grave di questa creatura che prescinde dalla sessualità. Entro in auto, il clangore della portiera mi rinchiude nel sentore di plastiche bollenti. Nel dipinto l’angelo suona un violoncello. Le cavate dell’archetto vibrano dentro la mia scatola cranica come un ultrasuono. Eseguirà Frescobaldi o Gabrieli, per l’eternità, per l’eternità va benissimo.
Mi obbligo a mettere in moto, avvio l’aria condizionata. Frescobaldi o Gabrieli nella paradisiaca sospensione di ogni conflitto. Dalle bocchette, incredibilmente, già un primo soffio di aria fresca. Finalmente la pace. La Vergine di San Zaccaria ammantata dal silenzio, circonfusa di pace. Più nessuna sofferenza, luce.
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