Quando abbiamo smesso di capire il mondo, uscito per Adelphi, è un libro che a tratti è difficile da definire. Fa scoprire il piacere della narrazione, mentre si avventura fra le trame profonde della conoscenza umana
- Quando scrive Il narratore, Walter Benjamin ha ancora davanti agli occhi gli anni del primo dopoguerra, gli anni Venti di Weimar e della grande depressione.
- Quando abbiamo smesso di capire il mondo di Benjamín Labatut è un oggetto singolarissimo. È lui un narratore davvero benjaminiano: anche qui dalla superficie apparentemente placida e olimpica della storia emerge l’orrore vibrante della distruzione di cui l’uomo è stato capace.
- La storia più affascinante, almeno per me, è quella di Karl Schwarzschild, il matematico e astronomo che per primo risolse le equazioni della relatività di Einstein e che ne seppe vedere il nucleo sublime.
Intorno a un fuoco si raccoglie un gruppo di esseri umani. Uno di loro inizia a parlare: racconta una storia. È la scena primaria dell’animale umano, quella che celebra la capacità – unica, almeno a questi livelli – di descrivere con il linguaggio qualcosa che non è presente o che addirittura non si è mai visto.
Eppure «l’arte di narrare si avvia al tramonto», scriveva nel 1936 Walter Benjamin, «è come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze». Quando scrive Il narratore, Benjamin ha ancora davanti agli occhi gli anni del primo dopoguerra, gli anni Venti di Weimar e della grande depressione: «dopo la fine della guerra, la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile. (…) Una generazione che era ancora andata a scuola col tram a cavalli, si trovava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo di forze attraversato da micidiali correnti ed esplosioni, il minuto e fragile corpo dell’uomo».
Suonano come lamenti di un’epoca lontanissima: di primo acchito ci sembrerebbe che tutti, oggi, non facciano altro che narrare, che il dominio dello storytelling si estenda su ogni territorio della vita, dalla politica (uno degli argomenti delle settimane precedenti non era il “metodo Casalino” applicato per infiocchettare le decisioni e le non-decisioni del governo Conte?) alla pubblicità, dalle serie televisive alla gestione delle emergenze stesse. Sull’impero dello storytelling non tramonta mai il sole.
Ma è un sole che non scalda: è una tecnica efficace quando ci serve per rendere più aerodinamiche le idee, farle circolare meglio e più velocemente; ma lo è molto meno quando gli chiediamo di dare un senso all’esperienza. E alla fine ci troviamo in una situazione molto più simile a quella evocata da Benjamin di quanto pensassimo all’inizio: di fronte a un’esperienza enorme, che ci ha coinvolto tutti, come quella della pandemia, siamo ammutoliti come dei reduci sotto shock. Un evento enorme, invisibile eppure tangibile, individuale e collettivo che però non sappiamo ancora davvero vedere, né nominare. Che al massimo riusciamo ad aggredire inutilmente con una sassaiola di chiacchiere e tweet.
Verso la tenebra
Se la narrazione è «la capacità di scambiare esperienze» con altri individui, oggi sono diventati problematici entrambi i poli della questione: sia lo scambio che l’esperienza. La tempesta informativa in cui siamo immersi è una tale massa incombente di dati, informazioni, fonti da provocare un vero e proprio accecamento: il cloud come una versione iper-attuale della “nube della non-conoscenza” dell’anonimo mistico cristiano del XIV secolo.
Incapaci di stare al passo con l’innovazione tecnologica troppo veloce per i limiti biologici, non possiamo che inciampare e l’eccesso di informazione, come ha mostrato DeLillo nel suo ultimo libro (Il silenzio), si ribalta nel suo opposto, nel silenzio appunto. Gli schermi costantemente accesi sono impenetrabili tanto quanto gli schermi neri dei device spenti.
Chi c’ha provato a stare al passo con questa accelerazione è il romanzo, ma non sempre c’è riuscito: il romanzo moderno nasce per raccontare ciò che è vicino, ciò che si ripete ed è graduale, il quotidiano borghese, la medietà di ogni vita e ogni psicologia. Il romanzo, per sua natura, non è suo agio con ciò che irrompe e trascende l’orizzonte umano. E infatti non è un romanzo il libro che più di tutti nei tempi recenti riesce a farlo, riesce cioè ad avvicinare chi lo legge al cuore di tenebra, di meraviglia e terrore, in cui la scienza-tecnica ha gettato il mondo negli ultimi cento anni.
Si intitola Quando abbiamo smesso di capire il mondo e l’ha scritto Benjamín Labatut (Adelphi, traduzione di Lisa Topi) ed è un oggetto singolarissimo, a tratti indefinibile. Chi ha un po’ di esperienza come lettore sulle spalle, tanto più se lo fa anche per mestiere, un libro tende a conoscerlo già prima di leggerlo, quanto meno a inquadralo: sa già cosa aspettarsi, cosa troverà tra le sue pagine. Questo non vuol dire che non se lo godrà o non ne sarà stupito, soltanto che già “più o meno” sa in quale casella metterlo.
Ecco, man mano che mi addentravo in Quando abbiamo smesso di capire il mondo, pagina dopo pagina, non potevo fare a meno di chiedermi «che accidenti di libro è questo? Che cos’è questa mescolanza di fatti reali e piccole invenzioni, questa narrazione senza romanzo, questo libro di scienza con il calore ustionante della poesia più visionaria?».
Ma era un attimo, come riprendere fiato dopo un’apnea, perché immediatamente venivo risucchiato nuovamente in una danza che mi trascina dalla nascita del blu di Prussia alle trincee della prima guerra mondiale e poi agli antichi alchimisti fino alle rovine del Ventesimo secolo, con la sua processione di macerie e orrori. Una giostra che a volte mi accelerava letteralmente il battito del polso, sostenuta solo dalla voce del narratore. Un narratore davvero benjaminiano, o anche che ricorda W. G. Sebald, quello degli Anelli di Saturno soprattutto: anche qui dalla superficie apparentemente placida e olimpica della storia emerge l’orrore vibrante della distruzione di cui l’uomo è stato capace.
In particolare nella prima vicenda raccontata da Labatut, quella di Fritz Haber, il chimico tedesco premio Nobel, inventore dei moderni fertilizzanti ma anche colui che mise a punto le armi chimiche e ne convinse all’uso durante la Grande guerra (la moglie si suicidò per l’orrore dei morti causati dal marito), che inventò anche lo Zyklon B usato dai nazisti per sterminare milioni di ebrei, ebreo lui stesso, costretto a fuggire dalle persecuzioni di un paese che non aveva esitato ad armare.
Stelle nere
La storia più affascinante, almeno per me, però non è quella del matematico giapponese che scopre un mondo al di là dell’umano nelle teorie più assurde, né quella (nota e già toccata, tra gli ultimi, da Carlo Rovelli in Helgoland) di Heisenberg e della scoperta della fisica quantistica, ma quella di Karl Schwarzschild, il matematico e astronomo che per primo risolse le equazioni della relatività di Einstein (nemmeno Einstein stesso vi era riuscito) e che ne seppe vedere il nucleo sublime.
Risolvendone i calcoli, Schwarzschild scoprì che la relatività prevedeva un qualcosa di totalmente inconcepibile, inafferrabile: forse addirittura inaccettabile. Alla morte di una stella, la «forza di gravità cresceva a tal punto che lo spazio si curvava infinitamente, chiudendosi su se stesso. Il risultato era una voragine senza fine, separata per sempre dal resto dell’universo».
È la singolarità al cuore di un buco nero. Un abisso da cui nulla può fuggire, nemmeno la luce. Un punto cieco, capì Schwarzschild, fondamentalmente inconoscibile: «dal momento che non emetteva luce, l’occhio umano non sarebbe mai stato in grado di vederla. Ma nemmeno la mente avrebbe potuto comprenderla, perché nella singolarità la matematica della relatività generale non era più valida». Questo mostro cosmico, questa minuscola eppure ingestibile macchia nera, contagiò l’anima di Schwarzschild, o almeno così immagina Labatut, al punto di corrodere il suo corpo e portarlo alla morte.
I buchi neri sono delle potentissime macchine metaforiche: hanno qualcosa di ancestrale, qualcosa legato appunto alla memoria e all’oblio, una tenebra informe che ci attira e ci inghiotte. Negli anni Settanta, sull’onda di un saggio sull’argomento scritto da Kip Thorne (l’astrofisico premio Nobel per le onde gravitazionali e consulente di Christopher Nolan per il film Interstellar), Primo Levi scrisse una delle sue poesie più belle, Stelle nere: «Le legioni celesti sono un groviglio di mostri, / l’universo ci assedia cieco, violento e strano. / Il sereno è cosparso d’orribili soli morti, / Sedimenti densissimi d’atomi stritolati». Le stelle nere sono i buchi neri, singolarità dal quale non si può fuggire. Ma si capisce anche che nella poesia di Levi il buco nero è l’immagine del trauma di Auschwitz, è la memoria tragica che continua a attirarci a sé, a schiacciarci a terra.
Raccolti intorno a un fuoco, continuiamo a narrare.
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