Negli ultimi decenni del XIX secolo, la qualità dell’acqua entrò a pieno titolo nella lunga guerra tra il ghiaccio naturale e il ghiaccio industriale. Il tema di fondo era legato alla trasparenza del ghiaccio, che con la qualità dell’acqua, in realtà, c’entrava poco, ma da lì si innescò un dibattito scientifico che in realtà aveva enormi risvolti economici
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Le acque non sono tutte uguali, questo si sa, e fin dalla preistoria le acque di alcune fonti venivano apprezzate per le loro particolari qualità curative, per il loro sapore, per la loro limpidezza e così via. Nel corso dei secoli, anzi dei millenni, alcune di queste acque particolari divennero sempre più famose, fino a generare una vera economia che in epoca più recente si trasformò nel turismo termale.
Ma questa, in qualche modo, è solo la manifestazione più appariscente di quella che potremmo definire una sorta di gerarchia delle acque. Tale gerarchia spesso non viene esplicitata e nemmeno studiata, si basa sull’esperienza e sul sentito dire: l’acqua di quella città è migliore delle altre, oppure quel pozzo fornisce l’acqua più buona di tutta la zona.
Montagna vs città
C’è un periodo storico nel quale queste convinzioni popolari e queste affermazioni empiriche divennero oggetto di veri e propri studi scientifici più o meno rigorosi. Perché negli ultimi decenni del XIX secolo, la qualità dell’acqua entrò a pieno titolo nella lunga guerra tra il ghiaccio naturale e il ghiaccio industriale. Il tema di fondo era legato alla trasparenza del ghiaccio, che con la qualità dell’acqua, in realtà, c’entrava poco, ma da lì si innescò un dibattito scientifico che in realtà aveva enormi risvolti economici.
Il problema della trasparenza del ghiaccio, come detto, non aveva nulla a che fare con la qualità dell’acqua di partenza, ma era legato al fatto che durante la produzione di ghiaccio artificiale veniva incorporata parecchia aria e quindi alla fine del processo il ghiaccio risultava molto opaco e per così dire poroso. Per altro, proprio queste caratteristiche rendevano il ghiaccio artificiale meno duraturo di quello naturale, assicurando un altro indiscutibile vantaggio a quest’ultimo. Il tema di fondo, però, era quello di stabilire criteri comuni di qualità. In assenza di analisi batteriologiche accurate, il primo e più semplice parametro era quello del residuo, vale a dire della quantità di materiale sospeso nell’acqua con la quale si produceva il ghiaccio. E proprio su questo punto il confronto divenne subito molto serrato.
Il caso milanese
L’esempio più lampante di questo incredibile confronto scientifico, ma che in fondo era soprattutto economico, ce lo abbiamo proprio noi in Italia. Riguarda il comune di Milano e si trascinò, con alterne fortune, dal 1890 al 1895. L’aspra polemica ebbe inizio nel novembre del 1889, quando il comune di Milano emanò un avviso pubblico con l’intento di regolare l’uso del ghiaccio a fini alimentari, proprio per salvaguardare la salute pubblica. In quell’avviso, in sostanza, si stabiliva che solo il ghiaccio artificiale poteva andare direttamente in contatto con i beni destinati all’alimentazione umana, in particolare carne e pesce, mentre, laddove non ci fosse stato contatto diretto, si poteva continuare ad utilizzare anche il ghiaccio naturale.
I produttori e i rivenditori di ghiaccio naturale, che costituirono immediatamente un comitato di categoria, avanzarono subito il sospetto che l’autorità comunale di Milano avesse agito sotto l’impulso della neonata S.A. per la fabbricazione del Ghiaccio, fondata in quello stesso 1889. La fabbrica, sempre secondo i produttori di ghiaccio naturale, faceva molta fatica a entrare nel mercato milanese, un po’ per i prezzi troppo alti e un po’ per l’aspetto poco invitante del suo ghiaccio; per questo l’intervento del Comune era sembrato un favore, nemmeno troppo velato, a un’impresa che non era partita col piede giusto. E siccome il regolamento comunale poggiava su motivazioni di ordine sanitario, i produttori di ghiaccio naturale diedero un incarico al Prof. Pietro Giacosa, ordinario di chimica fisiologica all’Università di Torino, di eseguire analisi comparative sui due tipi di ghiaccio. Lo scopo, anche in questo caso fin troppo esplicito, era quello di dimostrare come non esistessero sostanziali differenze tra i due prodotti e che quindi il bando, seppur parziale, del ghiaccio naturale fosse del tutto ingiustificato.
Il Prof. Giacosa andò ben al di là dell’obiettivo che si erano dati coloro che lo avevano incaricato delle analisi, infatti, il cattedratico torinese non si limitò a dimostrare l’equivalenza dei due ghiacci dal punto di vista chimico, ma si spinse fino ad affermare che per quanto riguardava la quantità di materiale sospeso contenuto all’interno del prodotto, il ghiaccio naturale era decisamente migliore di quello artificiale e quindi più puro e meno pericoloso per la salute umana. Una conclusione del genere metteva in difficoltà la giunta municipale, che si trovava nell’impossibilità di giustificare dal punto di vista tecnico la sua precedente decisione. La reazione non si fece attendere; la S.A. per la fabbricazione del ghiaccio, nel marzo del 1890 dava incarico non a uno, ma questa volta a due professori del Politecnico di Milano, il Prof. Luigi Gabba e il Prof. Guglielmo Körner, di eseguire a loro volta analisi comparative e di confutare le conclusioni del Giacosa.
Gabba e Körner presentarono le loro controanalisi per rispondere a quelle fatte dal loro collega Giacosa; diciamo che i due professori milanesi non brillavano in diplomazia: definire “frammentaria”, “in flagrante contraddizione”, “incomprensibile”, “tecnicamente insufficiente” la relazione di Giacosa, non era certo un buon modo per iniziare un dibattito scientifico. E infatti il chimico torinese rispose in maniera piccatissima con una nuova pubblicazione, se possibile ancora più violenta. Per dire, era talmente arrabbiato da non rivolgersi ai suoi colleghi con il titolo di “professori”, ma già nel titolo e poi nel testo li chiama solamente “signori”. Insomma, l’aveva presa bene…
Bisognerà attendere il 1895 perché la questione venisse risolta una volta per tutte a favore del ghiaccio artificiale. L’anno precedente la giunta comunale affidò l’incarico di eseguire nuove analisi al Prof. Luigi De Martini con lo scopo di dirimere l’annosa questione. Si trattò di una sorta di arbitrato, perché le conclusioni di De Martini, nettamente favorevoli all’uso del ghiaccio artificiale, non vennero contestate da coloro che ne venivano penalizzati. E’ possibile ipotizzare che nel frattempo la diffusione e i miglioramenti della produzione industriale avessero reso impossibile la sopravvivenza sul mercato dei produttori di ghiaccio naturale.
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