In uno dei libri più belli che siano mai stati scritti su Milano e intitolato All’ombra di mio padre, Alberto Vigevani rivela al lettore una singolare forma di magia: quella degli oggetti. Specialmente se sono inutili; più sono inutili più sono magici. Scriveva: «Erano vasi per fiori di forma inusitata e malcelato equilibrio; paralumi che celavano lampadine la cui luce rimaneva pressoché invisibile, o troppo schermata; pendole dal tocco soffocato, tenute a bada da coppie di alabardieri o di leoni». E poi: «Fiori di cera che appassivano senza sfiorire sotto la campana di vetro soffiato; sfere o poliedri di cristallo sfaccettato che imprigionavano in disegni speculari ritagli di stoffa, matassine di lana, perline multicolori». E in fine riflette: «Gli oggetti che ci stanno vicini – parlo soprattutto di quelli – sono gli ultimi idoli che, dopo la progressiva e forse definitiva ritirata del sacro, accompagnano in silenzio la nostra esistenza. Ce ne accorgiamo quando, per una ragione o l’altra, dobbiamo abbandonarli, e loro, in qualche modo oscuro, ci restano tenacemente attaccati, anche se non li vediamo più». 

Mercante di libri

Non è un caso che Alberto Vigevani (1918-1999), oltre che uno degli scrittori più interessanti del Novecento e assolutamente da riscoprire, sia stato forse il più importante libraio antiquario italiano. La libreria da lui fondata nel 1941 esiste ancora a Milano, in un appartato cortile di Via Borgonuovo a Brera, si chiama Il Polifilo, come il famoso volume quattrocentesco di Aldo Manuzio. 

La qualità tattile della scrittura di Vigevani viene sicuramente dal piacere del libro in quanto oggetto. Un oggetto il cui valore è immateriale e che tuttavia si tiene tra le mani, si usa, si rovina, e il cui pregio è fatto di molti dettagli di cui Vigevani era amante, grande esperto, divulgatore e mercante. È un aspetto non secondario, quello del mercante. Vale a dire dell’uomo di commercio, e quindi, ai suoi tempi, del viaggiatore che sbarcava a Londra e Parigi e andava direttamente dalla stazione nelle botteghe di colleghi illustri come Galanti o Maggs a vedere cosa si poteva portar via.

Una volta si era fatto accompagnare dal banchiere e mecenate Raffaele Mattioli che si era trovato al cospetto di un manoscritto «autografo» della Gerusalemme conquistata del Tasso. Di fronte all’oggetto non avevano neanche chiesto il prezzo: «Perché son cose che non hanno prezzo», disse il banchiere, «o sarebbe irriguardoso attribuirglielo». Dal canto suo, per il mercante il libro ha una caratteristica molto peculiare, e cioè che spesso non vuole separarsene; ma deve, la professione glielo impone. 

Quando, qualche anno fa, ero stato a visitare la libreria di via Borgonuovo, suo nipote mi disse che lo zio aveva coniato appositamente una frase per scongiurare quell’impasse. Diceva Vigevani: «Quando vendi qualcosa che sai che non ritroverai mai più, fatti pagare il dolore». 

Profumo di vita

Ma per capire fino a che punto arrivasse il piacere di Vigevani per gli oggetti, bisogna leggere fino in fondo la pagina – la si trova nel formidabile La febbre dei libri. Memorie di un libraio bibliofilo (Sellerio) – di quella scorribanda parigina insieme al presidente della Banca commerciale italiana (che, tra le altre cose, a Vigevani aveva affidato la guida delle edizioni Ricciardi). Dopo la visita al libraio, lo aveva condotto in un «negozietto di articoli per legatori» dove avevano visionato dei tagliacarte, un tempo usati più che per aprire la corrispondenza per separare le pagine delle edizioni pregiate e «lisciare la piegatura sui fogli prima di cucirli».

Rievocava Vigevani: «Ce n’erano di chiari, in bosso, di scuri, in macassar». Solo in un libro di Alberto Vigevani si può incontrare usata con la massima disinvoltura questa parola: macassar. Un legno, oggi raro, della famiglia degli ebani. Per lo scrittore ogni oggetto va descritto e rievocato esattamente come le dita e gli occhi in quel momento lo hanno percepito. Attenzione, non è un procedimento gratuito, è un preciso artificio letterario. Le pagine di Vigevani odorano, come la sua bottega a tutt’oggi, di un passato che non è polverosa patina, ma è un profumo di vita piena e quasi sempre struggente. E sì, spesso, questi oggetti sono legati a un dolore. Non sempre piccolo. 

Il baule

Su questo principio è costruito il racconto ormai introvabile che Sellerio ripubblica in questi giorni, intitolato La breve passeggiata. Come altri romanzi di Vigevani è largamente autobiografico e prende avvio da un oggetto. O piuttosto, proustianamente, la memoria si dipana a partire da lì. Così comincia, senza perdere tempo: «Il baule fu un dono della zia Jole, sorella del padre di Anna, quando assai precocemente ci sposammo».

E comincia la descrizione, come se una mano lo toccasse adesso: «Alto pressappoco come me, adorno di numerose borchie d’ottone, armato di ghiere di ferro e costolature di legno (…). Verniciato d’un fiammante verde-vagone, possedeva robuste serrature di ottone con staffe simili a spallacci d’armature medievali. (…). L’interno era foderato di raso moiré d’un colore tra il beige e oro, come le scaglie di quei pesci giapponesi che volteggiano eternamente in vasche di cristallo». Ancora una volta: la precisione nell’enumerare un tal lusso non è leziosa, ma è un voluto contrasto con l’orrore che verrà dopo e che questo strano oggetto d’antan rende ancora più inaccettabile.

Come Vigevani, ebreo di origine modenese (il padre era un avvocato di attori famosi), anche gli zii della moglie erano ebrei: Jole e Giorgetto. Vigevani e Anna si sposano in fretta, «e precocemente», proprio durante la promulgazione delle leggi razziali prima dello scoppio della guerra, con l’ipotesi probabile di migrare in America. La zia Jole fa però a tempo a regalar loro questo baule, che si portano in viaggio di nozze e poi, nel tempo, dopo altre peregrinazioni – in realtà Vigevani riuscirà a passare in Svizzera, dopo aver vista bombardata la sua prima libreria – il baule finirà in una soffitta in campagna. 

La breve passeggiata

Scrigno (anzi, forziere) di memorie, ci parla però della zia Jole e del marito. Come tanti altri ebrei milanesi, dopo l’8 settembre del 1943 furono traditi da contrabbandieri che invece di portarli in Svizzera li abbandonarono sopra Ponte Tresa: loro, come altri, riuscirono a passare il confine ma furono rispediti indietro dai gendarmi svizzeri e, catturati dalle milizie fasciste, finirono a San Vittore, dove gli ebrei milanesi erano in transito prima di essere mandati ad Auschwitz. Accadde anche a Jole e Giorgetto, lei voluminosa come il baule, lui piccolo, magro, basso. Due milanesi che abitavano in un bell’appartamento di via Faruffini, dalle parti di Piazza De Angelis. Lei ottima cuoca, lui raccontatore di storielle umoristiche, «grandi fumatori di sigarette dal bocchino dorato, come usava allora, fossero Turmac o Xanthia».

Giorgetto aveva fatto la Grande Guerra ed era caduto prigioniero dei russi. Era triestino, e aveva un cognome straniero. La follia delle leggi razziali li aveva fatti litigare per questo: la zia Jole, impaurita da quei provvedimenti, quasi glielo rimproverava. In piena Milano questi due milanesi caddero preda del panico e si ritrovarono soli, finché, come tanti altri, furono catturati. Vigevani, molti anni dopo, viene a sapere da un testimone scampato che a San Vittore, un giorno, Giorgetto per una distrazione delle guardie riuscì a uscire dal carcere. Si ritrovò incredibilmente libero. Camminò per qualche ora, chiese da fumare a un passante. Vigevani immagina nel romanzo cosa deve essere passato nella testa dello zio durante quella breve passeggiata di un uomo a cui avevano portato via tutto, ma non l’amore della sua vita: Jole era ancora dentro, e non poteva essere lasciata sola. Della loro fine non si è mai saputo nulla con esattezza. 

Anche la loro immagine per lungo tempo si è appannata, finché non è stato sollevato un velo da sopra un vecchio baule, con le sue borchie e i suoi interni in raso moiré: «Gli oggetti hanno più probabilità di durare di noi, i loro paradisi e i loro inferni sono quaggiù, nel silenzio che generalmente li circonda: non cercano evasioni».


Alberto Vigevani è autore del libro La breve passeggiata, ripubblicato in questi giorni da Sellerio editore

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