Quest’anno, in filosofia, va di moda la moda. Ha cominciato Einaudi, traducendo un saggio di Eugen Fink, Moda. Un gioco seduttivo, e poi è arrivato un grosso libro di Emanuele Coccia e Alessandro Michele per HarperCollins, La vita delle forme. Naturalmente, qualcuno ha subito storto il naso. Se di moda si occupa il sociologo, il semiotico, il designer, nessuno trova niente da ridire. Ma se lo fa il filosofo, c’è sempre pronta l’obiezione che quest’ultimo dovrebbe occuparsi d’altro, intendendo che ci sono cose più serie con cui avrebbe a che fare la filosofia.

Giovanni Matteucci, che firma l’introduzione al libro di Fink, parla giustamente della «distratta altezzosità» in cui si traduce questo atteggiamento. È l’inevitabile retaggio platonico, la convinzione che la verità stia dietro e oltre l’apparenza, e soprattutto abbia a che fare con lo stabile e il permanente e non con quello che è mutevole per definizione, come appunto la moda. E invece ha ragione Emanuele Coccia: si può filosofare su tutto, «si può pensare con qualsiasi cosa e a partire da qualsiasi cosa», se pensare significa liberare idee a partire dai linguaggi e dai corpi che quelle idee usano e incarnano. Non c’è una porta principale da cui entrare nella filosofia, e anzi entrarvi a partire da fenomeni concreti o da esperienze familiari può essere un buon motivo per sfatare l’immagine sussiegosa e libresca della filosofia stessa.

Naturalmente chi fa filosofia a partire da fenomeni e campi concreti ha un problema in più rispetto a chi si trastulla con i massimi problemi, che sono anche i problemi eterni, cioè eternamente irrisolti. Deve sapere qualcosa, anzi possibilmente molto, dei campi in cui si introduce. Il filosofo della scienza dovrebbe avere qualche pratica della ricerca scientifica, e quello dell’arte conoscere possibilmente dall’interno le pratiche artistiche. Da questo punto di vista entrambi i libri, quello di Fink e quello di Coccia, hanno le carte in regola perché mettono in campo una strategia interessante. Tutti e due (e la cosa è tanto più da sottolineare in quanto per il resto sono libri diversissimi), nascono da un contatto diretto con il mondo della moda.

Il mondo haute couture

Eugen Fink è stato un serissimo studioso, allievo stretto di Edmund Husserl, il padre della fenomenologia e maestro anche di Heidegger, e alla fenomenologia sono ispirati tutti i suoi lavori. Nel 1963/64 sostituì per un semestre un collega all’università di Basilea, e qui conobbe un grosso commerciante di tessuti, Walter Spengler, che aveva molta passione per la filosofia ed era profondamente convinto che i direttori delle numerose filali della sua impresa, sparse un po’ per tutta la Svizzera, avrebbero tratto giovamento se i problemi della moda con i quali si confrontavano giornalmente fossero stati approfonditi da un filosofo. I saggi contenuti nel libro di Fink sono nati così, da un dialogo con gli addetti ai lavori, e su sollecitazione di un imprenditore attivo nel settore.

Anche nel caso di La vita delle forme la sollecitazione prima viene da una persona che lavora direttamente nel mondo della moda. Assieme a Coccia a firmarlo è infatti Alessandro Michele, che dopo esperienze di lavoro presso Les Copains e Fendi, dopo aver lavorato a fianco di Karl Lagerfeld e Tom Ford, è diventato direttore creativo di Gucci e da quest’anno lo è di Valentino. Ed è proprio lo stilista a insistere sulla linfa che la filosofia può portare alla moda, rivendicando il ruolo che questa ha avuto nel suo percorso creativo («è stata la moda a portarmi alla filosofia») e riconoscendole un ruolo che forse un filosofo di professione non si azzarderebbe ad attribuirle («La filosofia non è che l’insieme dei desideri e delle conoscenze che ci permettono di vivere più intensamente»). Su questa strada è avvenuto il sodalizio con Emanuele Coccia, che senza dubbio tra i filosofi contemporanei era il più predisposto a questo incontro, nel quale poteva portare il contributo che veniva dalle sue riflessioni sull’abitare e sulla metamorfosi, due temi in qualche modo indisgiungibili dalla moda, se è vero che la casa e l’abito sono due prolungamenti della nostra personalità, e che la moda è un continuo fluire di trasformazioni e di scambi.

Arricchire la vita

Bernard Berenson, il grande conoscitore e storico dell’arte che viveva in una splendida villa a Vincigliata, sui colli fiorentini, e che le fotografie, non a caso, ritraggono sempre in eleganza inappuntabile, diceva che la caratteristica prima dell’arte è di essere un’intensificazione e un arricchimento della vita, di essere life-enhancing. La stessa cosa Coccia e Michele possono dire della moda, ma per loro più che di un parallelismo si tratta di un’identità. Moda e arte non sono due ma uno, e se le forme di cui si parla nella Vita delle forme sono quelle della moda, sono anche quelle dell’arte, e lo dimostra il fatto che il medesimo titolo venne usato decenni fa dallo storico dell’arte Henri Focillon per quello che rimane il suo libro più noto. La moda è il cavallo di Troia che permette all’arte di entrare in qualsiasi vita, e vestendoci siamo tutti, finalmente, artisti, come voleva Joseph Beuys. È un’arte che non contempliamo ma che plasma la nostra identità, si fonde nelle nostre vite, secondo il sogno delle Avanguardie più avanzate: l’arte e la vita finalmente confuse, e non nel senso estetizzante del fare della propria vita un’opera d’arte, ma in quello esistenziale del permettere ad ognuno di esprimersi attraverso la materia, i tessuti, i colori, le forme.

La moda sta in equilibrio perfetto tra mondo umano e mondo delle cose, è fatta di cose che diventano parlanti, rivelano un’anima. Me le opere d’arte non sono forse lo stesso, cose che trattiamo come persone e che ci parlano come se lo fossero? «Ogni abito è il mezzo che permette al nostro io di tracimare all’esterno».

Moltiplicatore delle identità

La moda nasce con la libertà. L’uniforme è il contrario della moda, e da questo punto di vista il completo maschile classico è in un certo senso la negazione della moda, l’espressione della rinuncia all’espressione.

Storicamente, la moda nel senso moderno inizia quando si può scegliere come vestirsi, e non si è più obbligati a farlo secondo il ceto o il gruppo sociale al quale si appartiene. La moda consente di dare forma visibile alla propria libertà, e molti abiti sono stati strumenti di affrancamento, basti pensare a cosa hanno significato i pantaloni per le donne o i jeans per gli uomini.

Anche su questo terreno si può trovare un punto di incontro tra il libro di Fink e quello di Coccia e Michele, perché il primo mette al centro della moda il gioco, la scelta priva di motivazione stringente o utilitaria. Ma se il filosofo degli anni Sessanta declinava il tema ancora sul piano ristretto della seduzione, mettendo la varietà delle forme al servizio di uno scopo unico, il filosofo e lo stilista contemporanei dilatano la nozione trasformando la moda nel terreno di elezione della trasformazione, della moltiplicazione. In poche parole: dello scambio tra epoche e generi. La bellezza della moda è metamorfica tanto quanto quella dell’arte.

L’abito diventa allora qualcosa che non ci inchioda più a un’identità, ma ci permette al contrario di moltiplicarla. Non è più una forma di confessione anagrafica del nostro status sociale, del nostro genere. Non sono più documenti di riconoscimento che ci legano per sempre ad una forma; al contrario, sanciscono «l’impossibilità di ridurre il nostro volto a una singola figura e alludono alla necessità, quasi fisiologica, di inventarne costantemente delle altre».

In modo simile, l’abito non deve più confessare la propria appartenenza a un certo tempo, ma «aprire alla compresenza di più tempi possibili», perché non si può essere veramente del proprio tempo se si appartiene solo a questo. La moda – e spesso le collezioni contemporanee lo rivelano – diventa allora un ponte tra tempi diversi, al contrario di quello che fa pensare l’immagine stereotipata della moda come legata all’immediato presente.

Del resto, non è l’ambiguità il segreto del messaggio poetico?

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