Dopo un’intera settimana siamo esausti. Dall’eccesso di funzionamento della macchina narrativa di Sanremo. E dalla proliferazione delle sue analisi. Non c’è scampo.

Dire non guardo Sanremo è come dire non mi interessa la classifica dei libri. (O chi vota, e per chi, alle elezioni). Salvo poi frignare quando pubblichi il tuo libro e nessuno se lo fila. (Un po’ come il Pd, alle elezioni.) Tant’è che la Meloni ci governa. (E vende libri, pure).

Perché nulla come la settimana di Sanremo (non è più un festival né un programma, ma un periodo della liturgia e del mercato, come Natale) ci fa capire come è cambiata la nostra società nell’epoca in cui la politica e la cultura si sono sciolte entrambe in comunicazione social.

Ci si può abbandonare al piagnisteo dei barbari che hanno profanato il tempio e alle litanie del “c’era una volta”. Una volta c’erano Gadda, Pasolini, Calvino, Sciascia, ecc; ora ci sono Baricco, Ammaniti, Ferrante. E, soprattutto, Erin Doom.

Sui giornali scrivevano Flaiano e Bianciardi; ora Gramellini e Scanzi. Anche Umberto Eco, Alberto Arbasino, Edmondo Berselli sono morti. Siamo rimasti solo noi, direbbe Vasco, soliti stronzi. C’era Berlinguer. Avremo Bonaccini. Per chiudere e tornare a Sanremo. C’era Modugno. C’è Mengoni.

Tra Borges e TikTok

Bene. Basta lamentarsi. Parliamo di cose serie. Sanremo, abbiamo detto, è una settimana liturgica e pervasiva che interrompe il flusso del tempo. È un universo mondo in scala 1 a 1 come in un racconto di Borges. Allo stesso modo, in un universo capillarmente mediatizzato, non c’è più un “fuori” da cui poter giudicare.

Non si può stare fuori da Sanremo. 

Qual è il pubblico per cui è costruito da Amadeus il racconto enciclopedico di Sanremo? Tutto. Il suo frullatore rimescola gli spettatori di tv e quelli dei canali web, i lettori di giornali, i frequentatori dei social, persino gli ascoltatori di podcast.

Dentro Sanremo ci sta tutto. I superospiti, arzilli ottantenni sopravvissuti, come Albano, Ranieri, Morandi, Di Capri. I morti come Lucio Battisti e Lucio Dalla. Le resuscitate come Paola e Chiara. O i Cugini di campagna e i Modà.

Le contemporanee come Giorgia, Elodie, Madame, Levante. Ultimo, con un'’onomastica programmatica. I ragazzini star dello streaming che conoscono soltanto gli altri ragazzini.

E poi la Costituzione, i Black Eyed Peas, Benigni, gli scazzi di Fedez col governo, le foibe, i morti del terremoto in Turchia e Siria. E, a notte fonda, persino comici che non fanno ridere come Angelo Duro e Alessandro Siani.

Insomma, Amadeus amministra l’euforia di un racconto enciclopedico che funziona accumulando una cosa sull’altra, una pienezza grammaticale dalla sintassi digressiva in cui tutto è contemporaneo e in cui c’è spazio per tutto.

Anche per non esserci, come nel caso clamoroso di Zelensky e in quello dell’onnipresenza, per assenza, di Fiorello. Che sta nel suo plexiglas a via Asiago. Sotto la radio all’alba o a notte fonda. E questo è importante e spiega molto.

Come le piattaforme e TikTok promuovono badilate di cultura sotto forma di mezzomilionate di libri di Erin Doom, l’esistenza di RaiPlay ci spiega cosa sta facendo, di geniale, Fiorello e cosa accada a Sanremo.

Fiorello ha inventato non solo un varietà per strada, in via Asiago appunto, ma una nuova fisica del tempo. Lo manda in onda alle sette del mattino e ora durante Sanremo a notte fonda. Quando non lo guarda nessuno.

Perché chiunque lo può guardare quando vuole su Raiplay. Amadeus, che è molto più intelligente di quanto faccia credere, lo ha capito. E Sanremo narratologicamente non è né un romanzo, né una serie tv. È un oggetto semiotico complesso: è un’enciclopedia e una biblioteca. Da cui prelevare highlights come nelle partite di calcio. Un altro oggetto temporalmente fuori misura. I canonici 90 minuti sono noiosissimi. Nessuno regge una partita per intero, con tutti i tempi morti. Come nessuno regge l’intero Sanremo.

Palinsesto di highlights

Consapevole della segmentazione di tutti i suoi pubblici, Amadeus da Sanremo strema i telemorenti stravaccati sul divano di casa che credono di guardare la tv, mentre costruisce un palinsesto di highlights pronti per il consumo neotelevisivo: delle piattaforme, dei social e di TikTok.

Che hanno necessità di argomenti divisivi su cui polarizzare un esercito di seguaci che ama litigare. Ecco allora i temi dei monologhi: il razzismo, il corpo delle donne, la neo lettera al bambino mai nato, c’è posto anche per la Fallaci, il carcere minorile.

Mattarella l’ha capito, per primo. La sua presenza è stato il primo degli highlight, pronto per i social. S’è affacciato dal palchetto. Ha cantato l’inno con Morandi, riso con Benigni, benedetto la Costituzione.

E se n’è andato. Mica s’è sciroppato Ultimo o Mengoni. Non prima, però, di un selfie con la devota ancella dell’algoritmo. Quella Chiara Ferragni che finora ci ha rifilato un monologo infantile, noioso e banale. Vedremo stasera.

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