L’azienda di giocattoli statunitense Mattel ha lanciato sul mercato americano la prima Barbie con sindrome di Down. Mattel ha detto di aver collaborato con la National Down Syndrome Society (Ndss) americana per la realizzazione del giocattolo, affinché potesse essere il più realistico possibile.

La bambola rientra nella linea Barbie Fashionistas, progetto con il quale dal 2016 l’azienda ha scalzato lo stereotipo della bambola bionda, caucasica, dalla vita strettissima, mirando piuttosto a una maggiore inclusività. 

Tra le bambole della nuova linea ci sono Barbie che rappresentano corpi diversi –  “curvy”, “tall”, “petite” – e di diverse etnie. In tempi recenti l’azienda ha voluto rappresentare anche le persone con differenti tipi di disabilità: Barbie e la sua controparte maschile, Ken, sono rappresentati in sedia a rotelle, con apparecchi acustici o protesi. Nella scelta sono state determinanti le battaglie che diverse organizzazioni hanno portato avanti per una rappresentazione più varia e realistica dei corpi maschili e femminili.

Nella promozione internazionale del prodotto sono state scelte persone con la stessa disabilità, come la modella Ellie Goldstein per il Regno Unito. In Italia, gli sponsor sono stati Luca Trapanese e sua figlia Alba, bambina con sindrome di Down, finiti al centro del recente dibattito sull’adozione da parte di genitori single. 

L’importanza del sapersi riconoscere

La nuova Barbie ispirata a persone con sindrome di Down ha i capelli lunghi, gli occhi a mandorla e indossa un vestito a fiori blu e giallo, colori distintivi della comunità, su cui sono stampate delle farfalle, altro simbolo delle associazioni dedicate alla sindrome. 

Mattel ha deciso di rappresentare anche i dispositivi medici che alcune persone con sindrome di Down utilizzano come supporto nei movimenti, dotando la nuova Barbie di ortesi rosa. Al collo della bambola, inoltre, spicca la collana rosa con tre punte, simbolo del 21esimo cromosoma all’origine della sindrome. 

La popolare azienda americana con questo nuovo prodotto ha voluto incentivare lo sviluppo dell’empatia nei bambini, per un futuro più inclusivo delle persone neurodivergenti. 

Eleonora Castellazzi, socia della Onlus Associazione sindrome di Down (Agbd) e mamma di una bambina di otto anni con questa forma di disabilità, crede che il nuovo giocattolo possa essere d’aiuto per una maggiore sensibilizzazione. A suo parere, però, la Barbie può aiutare soprattutto i normodotati, compagni di scuola di bambini con sindrome di Down.

«La mia bambina gioca tanto con le Barbie», dice Castellazzi, «ma in lei c’è ancora poca consapevolezza di avere la sindrome. Per i compagni, invece, magari sarebbe uno sprono in più. Loro si pongono domande: perché fa una cosa piuttosto che un’altra o perché prova rabbia in certe situazioni». La Barbie, «accentuando le caratteristiche fisiche della sindrome, può permettere alle bambine normodotate di vedere questa differenza», così da rafforzare l’empatia nei coetanei e permettere loro di riconoscere e rispettare la disabilità. 

I nuovi obiettivi per l’inclusione

La Barbie di Mattel non è però la prima a tentare una rappresentazione della trisomia 21 per i più piccoli. Selma’s Dolls, azienda produttrice di bambole di pezza, ha messo in commercio Annie, così come la collezione di bambole con sindrome di Down della Little wonder and Co.

Le iniziative più importanti per l’integrazione dei giovani affetti da trisomia 21 passano, però, soprattutto attraverso la scuola, come sottolinea Patrizia Danesi, dell’Associazione italiana persone Down (Aipd). 

«L’inclusione è passata e continua a passare principalmente attraverso la scuola, nel nostro paese» dice Danesi. «In Italia l’inclusione scolastica è riconosciuta da oltre trent’anni come diritto, ma ci sono molte criticità ancora», continua Danesi, ribadendo però come mai sia stata messa in discussione la possibilità per i bambini con sindrome di Down di frequentare le stesse scuole dei bambini neurotipici. 

Patrizia Danesi spiega che rispetto al passato la situazione è cambiata e che all’incirca quarant’anni fa, alla nascita dell’Aipd, ancora non era possibile immaginare persone con sindrome di Down «nella scuola di tutti o nel mondo lavorativo», ma tuttora emergono delle criticità, soprattutto nel mondo lavorativo. 

In occasione del primo maggio, l’associazione ha in programma una campagna per fare il punto su «cosa è cambiato e cosa c’è da fare», dice Danesi. «Le persone con sindrome di Down in passato lavoravano solo nella ristorazione o in contesti simili, mentre oggi troviamo persone anche negli uffici, come magazzinieri presso centro commerciali o addetti alla vendita.» 

I contesti lavorativi sono cambiati, ma ancora «poche persone con sindrome di Down lavorano» in Italia. Un criterio da utilizzare secondo l’Aipd è individuare mansioni facili che i giovani possano fare in autonomia.

Per migliorare la sensibilizzazione in ambiente scolastico, invece, la proposta di Eleonora Castellazzi – in qualità di insegnante oltre che di mamma dell’Agbd – è quello di integrare racconti e libri fruibili nelle classi, così da facilitare insegnanti e terapisti. 
 

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