La chiusura di biblioteche e archivi ha reso quasi impossibile il lavoro degli storici, che hanno sottoscritto un appello per chiederne la riapertura: tra i colpiti, anche chi studia le conseguenze sociali ed economiche delle grandi pestilenze del passato
- Giulia Zornetta è una ricercatrice in Scienze Storiche, ma è anche tra i redattori dell’Appello per la continuità di apertura di archivi e biblioteche.
- Lei e i suoi colleghi mi hanno raccontato le ragioni di una petizione che ha già raccolto oltre tremila firme, tra cui quelle di Carlo Ginzburg e Alessandro Barbero.
- L’ultimo Dpcm annuncia la chiusura di «musei e altri istituti di cultura» coinvolgendo, in questo, e nuovamente, anche archivi e biblioteche; ma lascia aperti i laboratori scientifici, in quanto luoghi di ricerca, non considerando che archivi e biblioteche sono i laboratori della ricerca umanistica.
Anni fa, una studentessa di Storia dell’Alto Medioevo, mi disse che i Longobardi erano la cosa più bella che le aveva dato la vita. Era una battuta di cui ridere insieme, certo, ma la passione che anima chi decide di perseguire il più alto livello di istruzione - il dottorato - è autentica e oggi minacciata dalla chiusura di biblioteche e archivi di stato. Giulia Zornetta, la studentessa di ieri, è oggi tra i ricercatori in Scienze Storiche che hanno redatto l’Appello per la continuità di apertura di archivi e biblioteche.
Lei e i suoi colleghi mi hanno raccontato le ragioni di una petizione che ha raccolto oltre tremila firme (tra cui quelle di Carlo Ginzburg, Alessandro Barbero, Chiara Frugoni, Salvatore Settis e Adriano Prosperi) e che il 26 novembre ha raggiunto la VII Commissione permanente diventando interrogazione parlamentare.
L’appello
«Tutto nasce da un gruppo Whatsapp - spiega Giulia – una sorta di mutuo soccorso tra medievisti che ha finito con il radunare quasi tutti i giovani studiosi d’Italia, diventando fonte di informazioni per affrontare le norme di accesso agli archivi seguite alle riaperture di giugno». E mentre i professionisti della ricerca umanistica fotografano in tutta fretta materiale da consultare a casa, il 3 novembre l’ultimo Dpcm annuncia la chiusura di “musei e altri istituti di cultura” coinvolgendo in questo, e nuovamente, anche archivi e biblioteche.
Ora l’accesso è pressoché impossibile. «In questo momento - prosegue Giulia – la storica biblioteca Marciana di Venezia è chiusa, ma concede libri a prestito con un sistema analogo a quello della ruota degli esposti, anticamente utilizzata per i bambini abbandonati».
La compagine di medievisti decide così di creare il gruppo “Crociata archivistica” e scrivere un appello che in breve riceve la sottoscrizione di tutte le società storiche e della Giunta Centrale per gli Studi Storici. «Noi ricercatori siamo lavoratori al pari degli altri», sottolineano i redattori.
Le voci dei ricercatori
Lavoratori come Francesco Borghero, dottorando all’università di Firenze-Siena la cui ricerca necessita di fonti di prima mano non edite. Francesco si occupa di notariato e mobilità sociale nella Toscana fiorentina del Trecento. È un mondo lontano, rispetto al quale potremmo girarci noncuranti della sua difficoltà ad accedere alle fonti. Non fosse che Francesco studia i mutamenti socioeconomici conseguenti alla Peste Nera e ai successivi cicli di epidemia pandemica. «Occupandomi di questi fenomeni calati nel tardo medioevo – spiega – è stato significativo trovarmi nel mezzo di una pandemia mondiale».
Così Matteo Briasco, dottorando all’università della Tuscia a Viterbo, è in attesa di accedere a fonti contenute negli archivi di Milano, Firenze, Mantova, Francia. Al momento può solo consultare una selezione di fotografie, terminate le quali la sua ricerca si bloccherà: «Sono pagato per un lavoro che non posso svolgere e che devo consegnare entro dicembre 2021, senza sapere come».
I redattori dell’appello contestano come le aperture degli istituti di cultura al grande pubblico siano state messe sullo stesso piano con l’accesso di un’utenza ristretta di specialisti a luoghi di ricerca frequentati per lavoro. Il Dpcm lascia inoltre aperti i laboratori scientifici, in quanto luoghi di ricerca, non considerando che archivi e biblioteche sono i laboratori della ricerca umanistica.
Tempo che non torna
Mentre molto si parla di Calabria e del suo infelice toto-commissario, a me piace ascoltare Sarah Procopio, dottoranda a Parigi che fa ricerca d’archivio in Italia: «Sono calabrese e mi occupo del commercio della seta grezza in Calabria tra il 1400 e il 1500, quindi del suo ruolo economico nel contesto mediterraneo di quell’epoca. I principali acquirenti erano le industrie della seta fiorentina, genovese e veneziana. Io mi sono concentrata sull’area toscana e lì svolgo la gran parte delle mie ricerche».
Sarah spiega come la vita di un ricercatore sia fatta anche di spostamenti da pianificare e spese da gestire. Nel mese di giugno ha affittato un alloggio a Firenze, ma le limitazioni degli accessi all’archivio le hanno permesso di metterci piede solo due volte. Ora che la situazione è ancora più grave Sarah è consapevole che le spese affrontate e il tempo perduto non torneranno.
Firenze si è spenta
Proprio come non torneranno gli anni più preziosi della formazione di Marco Tarallo, che partendo dalla periferia di Napoli è arrivato alla Scuola Normale e oggi è dottorando in Storia Contemporanea presso l’università di Firenze. «Qui spero di completare la mia formazione e diventare uno studioso a pieno titolo». Forse forte dell’esperienza personale, la sua ricerca riguarda «modelli storici di università di élite tra Italia e Francia negli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Volevo cominciare a rispondere a domande sull'eguaglianza, sulla competenza, sulla democrazia dei diritti. Poi è arrivato il Covid. I professori sono stati inghiottiti dagli impegni online, Firenze si è spenta, entrare negli archivi è diventato un privilegio».
Marco considera, non senza amarezza, che gli studi a cui ha dedicato la vita sembrano diventati un problema, quasi un fastidio invece che qualcosa di buono e promettente. Nella formazione di uno studioso gli anni del dottorato sono i più importanti, quelli dedicati totalmente alla ricerca, e se l’esito di quei tre anni non è adeguato sarà difficile andare avanti.
Ridare dignità agli studi umanistici
Lorenzo Caravaggi, dottorando a Oxford, sta lavorando come ricercatore a contratto per un professore dell’università di Harvard: «Il progetto riguarda l’ingiuria verbale e la satira nell’età di Dante, un lavoro basato interamente su materiale inedito e migliaia di carteggi relativi a processi penali conservati negli archivi. L’Italia di quegli anni conobbe un enorme sviluppo istituzionale e in questi documenti si trovano molte sorprese. Ci sono casi relativi a personaggi noti, ma anche quello stupendo di un truffatore che agiva lungo l’Appennino, costruendo statue fatte di zucche dai presunti poteri magici, per poi venderle a contadini e frati». Lorenzo, con tono animato di passione, spiega che queste ricerche «permettono di gettare luce e colore su queste epoche, facendo rivivere persone che erano state dimenticate nel silenzio dei secoli».
Dello stesso avviso è Tommaso Vidal. Formatosi a Trieste, è uno storico medievista e dice di essere «uno dei rarissimi residuati che si occupano di storia economica». A condizioni normali, frequenta archivi che gli permettono di accedere a documenti che uniscono politiche istituzionali, contabilità aziendali e contratti notarili.
Una delle cose più divertenti che gli sia capitato di scoprire è quanto queste persone così lontane, in fondo, fossero abbastanza simili a noi: «Nelle delibere del comune di Udine ho rilevato che spesso il notaio, probabilmente annoiato dalle discussioni che si svolgevano nel consiglio del comune, cominciava a scarabocchiare il quaderno con schizzi dei volti dei partecipanti, disegni di draghi e stemmi. Lo immagino cercare di passare il tempo, come del resto facciamo tutti in questo periodo, quando le riunioni su Zoom vanno troppo per le lunghe».
Chi ha redatto e firmato l’appello è consapevole delle priorità di un paese in emergenza sanitaria. Come da petizione: «Non intendiamo sottrarci allo sforzo richiesto a tutti i cittadini per contenere la pandemia». Quello che gli specialisti del settore chiedono è che le discipline umanistiche, anziché cadere nell’oblio, vengano riconosciute come promotrici dello sviluppo economico, sociale e culturale del Paese. Chiedono anche una riflessione su ciò che il Coronavirus non causa direttamente, ma fa emergere: precarietà già esistenti su cui si è preferito soprassedere per decenni.
Parlando di mutamenti socioeconomici, pandemie, seta, commercio, potere, satira, truffe, questioni di classe e notai annoiati con un talento nel disegnare i draghi, questi ricercatori non hanno fatto che parlarmi dell’umano. È un umano che ci riguarda anche se perso nei millenni, difficile da estrapolare dai documenti in cui si è rifugiato senza sgretolarlo. Per riuscirci servono degli scienziati.
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