- È evidente la relazione dell’opera di Saville con la storia dell’arte e con i dipinti di quegli artisti che riescono a trasmettere attraverso la pelle il senso di decadimento della carne, come José de Ribera o come Tiziano e Rembrandt in tarda età, o ancora come Willem de Kooning.
- Un senso di decadimento della carne che porta inevitabilmente a una riflessione sulla morte, tema a cui non può sfuggire un artista che, come lei ha fatto della condizione umana, e dunque della finitezza, un tema fondamentale della sua ricerca.
- Sin dagli esordi Saville ha trovato infatti sostegno al suo sentire nelle teorie di Luce Irigaray. Partendo dalle tesi della filosofa e psicanalista femminista belga la sua pittura ha affrontato il modo in cui la donna percepisce il proprio corpo, condizionata da una cultura partorita da menti maschili.
Nel mio personale museo immaginario un posto di rilievo l’ho assegnato ad Atonement Studies (Studi di Redenzione), un trittico di grandi dimensioni realizzato a Palermo tra il 2005 e il 2006 da Jenny Saville, artista inglese oggi cinquantenne, giustamente considerata una delle pittrici realiste più importanti dei nostri giorni.
In quegli anni Saville era già nota per i dipinti di grandi dimensioni degli esordi, che raffigurano corpi in sovrappeso, la cui carne ricade su se stessa, in cui ogni piega e torsione appare come un taglio e ogni ombra come un livido. E ancora, corpi e volti realmente feriti, tumefatti e insanguinati, medicati, collegati a sondini e drenaggi. Corpi in cui anche la bocca, l’ombelico e i genitali appaiono come ferite. Corpi sui quali non si riesce ad avere un controllo, che si appesantiscono o si ammalano e non sono mai come li vorremmo.
Corpi ai quali Saville ha spesso dato il suo volto, pur non trattandosi di veri autoritratti, non rispecchiando la sua fisicità. Corpi che danno immagine al peso che ci portiamo dietro fino a quando abbiamo vita. Corpi non accettati, come quelli dei transgender che ha dipinto attorno alla metà del Duemila. Di questi soggetti incentrati sul tema della costruzione ibrida del corpo Saville spiegò nel 2004 a Barry Schwabsky che “Quel corpo non avrebbe potuto esistere trent’anni fa. È possibile grazie agli impianti di silicone”.
Lo stesso anno in cui Saville ha finito di dipingere Atonement Studies mi sono ritrovato a dover scrivere di quel trittico per il catalogo della mostra The Bilotti Chapel, curata da Gianni Mercurio all’Arancera di Villa Borghese, a Roma. Costituito da tre pannelli, Atonement Studies pone il volto di Rosetta, una ragazza napoletana cieca dalla nascita, in posizione centrale. Ai due lati un uomo e una donna giacciono feriti: il pannello di destra mostra un giovane su un letto di ospedale con evidenti tracce di un pesante intervento chirurgico, quello di sinistra una donna sdraiata su un letto con il volto in ombra, seminascosto. Il suo sesso in primo piano, macchiato di rosso come una ferita non rimarginata, domina la scena. Per realizzare questo dipinto Saville si è fotografata ispirandosi a immagini di guerra prese da libri e giornali che mostrano persone che hanno subito gravi ferite. Eppure, spiega, non è un autoritratto.
Scrivere di Atonement Studies mi permise allora di stare a lungo in contatto con l’artista e mi ritrovai così a registrare e riportare nel mio testo pensieri e dettagli significativi della sua vita, utili a comprenderne la complessità del lavoro. A rendermi ancora più familiare quell’opera fu una versione del pannello centrale del trittico, Rosetta II. Con non poche difficoltà. riuscii a convincere Saville a esporlo nella mostra Eretica, da me curata quello stesso anno insieme a Gianni Mercurio alla Galleria d’Arte Moderna di Palermo. Rosetta II torna adesso a essere esposta fino al 20 febbraio in Italia, a Firenze, nella mostra curata da Sergio Risaliti che si inaugurerà giovedì al Museo del Novecento e che si estende anche in altri siti museali della città.
Ho sempre dato molta importanza al ritratto di Rosetta e non nascondo una certa emozione all’idea di poterlo rivedere in mostra a Firenze. Uno dei motivi che mi legano particolarmente ad Atonement Studies è l’aver incontrato la persona che ha posato per l’opera. Saville volle che Rosetta fosse presente all’inaugurazione, oltre che al party che ne seguì nella casa romana della sua amica Vittoria Odescalchi. Vedere quella giovane donna priva della vista accanto alla sua rappresentazione innescò un corto circuito nella mia mente. L’arte universalizza e insieme sublima la realtà, che resta però tale, in tutta la sua crudezza. La rappresentazione che Saville ha fatto Rosetta riesce a drammatizzare e nel contempo trasfigurare la cecità con grande rispetto per la persona, senza cedere alla retorica e tenendo in considerazione il desiderio di Rosetta di non voler suscitare compassione. Saville raffigura questa giovane cieca con la testa appena reclinata all’indietro come se stesse vivendo l’esperienza dell’estasi, come se i suoi occhi vedessero una realtà trascendente. Contrariamente a quanto avviene nella ritrattistica classica in cui gli occhi del soggetto spesso seguono chi osserva il quadro, qui siamo noi a non riuscire a distogliere lo sguardo dalle sue cornee, che restituiscono la luce come uno specchio d’acqua limpido.
Mi scusi il lettore se insisto sul mio rapporto con quel dipinto. La resistenza di Saville a concedermi il prestito per la mostra era dettata dal desiderio di abitare a Palermo in una condizione di quasi anonimato. “Voglio vivere tranquilla,” mi disse rispondendo alla domanda sul perché avesse scelto di allontanarsi da città dove avrebbe potuto avere ben altro contatto con il mondo dell’arte contemporanea. Ma c’era dell’altro, come lei stessa aveva spiegato Barry Schwabsky: “Ciò che mi affascina di Palermo è il modo in cui è permeata da un senso di morte, da una sorta di solennità. Quando vai a comprare la carne, vedi carcasse appese dappertutto, interiora di animali… ovunque ti trovi sei estremamente consapevole della morte. E poi nella città c’è un’ibridazione affascinante, forse perché è stata conquistata tanto spesso. Hai sempre un piede nella storia”.
Già allora mi soffermai sul peso assunto nel suo lavoro dalla coscienza della morte, ma rimarcai anche quanto forte fosse il senso del sacro trasmesso dai suoi dipinti. Nel tempo tornai a soffermarmi su Rosetta, opera della quale avevo continuato a esplorare le tante implicazioni avendo nuovamente avuto l’occasione di presentare nel 2007 il trittico nella mostra di gruppo Timer, alla Triennale Bovisa di Milano.
“Uso la pittura a olio come una sostanza corposa, tangibile, che per me ha in sé un riferimento alla carne”, mi disse Saville. È evidente la relazione con la storia dell’arte e con i dipinti di quegli artisti che riescono a trasmettere attraverso la pelle il senso di decadimento della carne, come José de Ribera o come Tiziano e Rembrandt in tarda età, o ancora come Willem de Kooning (di quest’ultimo si pensi in particolare al ciclo delle Woman, realizzato agli inizi degli anni Cinquanta). Un senso di decadimento della carne che porta inevitabilmente a una riflessione sulla morte. La morte, certo, tema a cui non può sfuggire un artista che, come lei ha fatto della condizione umana, e dunque della finitezza, un tema fondamentale della sua ricerca. Saville si muove insomma nel solco tracciato da artisti come Freud e Bacon, ma lungi di rappresentarne una sintesi, la sua pittura ne è indipendente.
Per dare maggiore realismo ai suoi dipinti Saville ha guardato pubblicazioni mediche nelle quali gli esiti della malattia, le ferite, le manipolazioni dei chirurghi sono presentati senza coinvolgimento emotivo. Ha anche assistito a interventi di chirurgia plastica. Nei suoi soggetti l’empatia si sovrappone alla ribellione. Sin dagli esordi Saville ha trovato infatti sostegno al suo sentire nelle teorie di Luce Irigaray. Partendo dalle tesi della filosofa e psicanalista femminista belga la sua pittura ha affrontato il modo in cui la donna percepisce il proprio corpo, condizionata da una cultura partorita da menti maschili.
La pittura realista è per sua natura narrativa e simbolica. Un dipinto che permette di addentrarsi nelle dinamiche costruttive dell’opera di Saville è Host (2000), che raffigura il ventre di una scrofa gonfio per l’allattamento. I capezzoli rimandano al corpo femminile. Manca la testa perché si crei ambiguità tra il corpo dell’animale e quello della donna. Sul piano simbolico, inoltre, il maiale è un animale che raccoglie molte implicazioni negative. Horst, trae spunto da Truismes, romanzo della scrittrice francese Marie Darrieussecq, in cui una giovane donna vede il proprio corpo lievitare fino a farle assumere le sembianze di una scrofa. Quasi tutti gli uomini ne sono dapprima attratti sessualmente, ma ben presto manifestano nei suoi confronti sentimenti di disprezzo. Perfino la madre, presso cui si è rifugiata, cercherà di macellarla. Per accettare la sua identità animale non le rimarrà che uccidere la madre e andare a vivere nel bosco. Il tema dell’uccisione dei genitori affrontato da Luce Irigary e Marie gioca un suo ruolo anche nella poetica di Saville.
Lo stesso soggetto di Horst ritorna in Saville due anni dopo con il titolo Suspension (2003), stavolta però il maiale è ricoperto di escoriazioni e gronda sangue. Questa seconda versione di Host nasce come risposta emotiva agli attentati delle Torri Gemelle dell’11 settembre del 2001. Il nuovo titolo suggerisce che la nostra vita è in balia degli accadimenti.
Da questi pochi esempi riferiti ad alcune sue opere rappresentative si può comprendere come Saville dia corpo a una pittura con risvolti anche politici. Nei più recenti dipinti l’artista si confronta con una realtà filtrata dagli schermi dei computer, focalizzando la sua attenzione su primi piani di facce, in alcuni casi scomposte e capovolte, costruite con ricche pennellate di colori luminosi. Oltre a dipinti significativi di vari momenti della carriera di Saville, la mostra di Firenze comprende numerosi disegni. Sono certo che costituirà una buona occasione per accostarsi e anche approfondire l’opera di questa portentosa artista.
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