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Le celebrazioni dantesche, che in teoria avrebbero dovuto rallegrare il settimo centenario della morte del poeta, in pratica ci hanno spesso inferto lugubri autopsie storico-critiche di un poeta morto e sepolto.
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In occasione dell’anniversario dantesco i membri dell’OpLePo hanno provato a rivitalizzare il poema dantesco da par loro. La sigla è l’acronimo di Opificio di letteratura potenziale.
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Alcuni sono ironici, e testimoniano di una vena ludica o goliardica del gruppo: ad esempio, Antonio Fiore ha invitato alla Trattoria del Fiero Pasto coloro che siano «puri e disposti a salire alle stelle Michelin». Una buona parte dei contributi si concentra invece seriamente sui testi di Dante.
Le celebrazioni dantesche, che in teoria avrebbero dovuto rallegrare il settimo centenario della morte del poeta, in pratica ci hanno spesso inferto lugubri autopsie storico-critiche di un poeta morto e sepolto, invece di liete rianimazioni linguistiche di un bel poema addormentato nella selva.
D’altronde, come gli indovini del Canto XX dell’Inferno, gli storici e i critici sono condannati dalla loro stessa professione a camminare in retromarcia, con la testa orrendamente girata all’indietro verso il passato e i trapassati.
Approccio “pornografico”
Nel Ritratto dell’artista da giovane (1916), uno scrittore come James Joyce bollava come “pornografico” ogni approccio all’arte che miri a eccitare i sentimenti: da questa qualifica non si sarebbero salvate non solo molte moderne letture di Dante, ma neppure molte antiche parti del suo poema. A scanso di equivoci, Joyce in realtà amava e ammirava il poeta, da lui ribattezzato nella sua ultima opera «il divino comico Denti d’Allighiatore», ma non erano certo le scenette dell’Inferno o del Purgatorio ad attirarlo, bensì l’uso visionario delle parole che a volte affiorava qua e là nei versi della Commedia.
Addirittura, una volta lo scrittore irlandese rivelò al suo traduttore italiano Ettore Settanni di essersi ispirato a versi danteschi quali «Papé Satàn, papé Satàn aleppe!», per comporre alcune parti del quasi intraducibile Finnegans Wake (1939): in altre parole, nel suo concetto di letteratura anti-pornografica non contavano tanto i significati delle parole, ammesso che ce ne fossero, quanto i loro suoni. Non a caso, l’Introduzione a James Joyce (1942) del premio Nobel per la letteratura Thomas Eliot consigliava ai potenziali lettori di ascoltare lo scrittore in audiolibro: preferibilmente letto da un irlandese, o ancor meglio da Joyce stesso (del quale esistono effettivamente le registrazioni di alcuni brani).
Oulipo e OpLePo
In occasione dell’anniversario dantesco i membri dell’OpLePo, fedeli all’esempio del loro “plagiatore per anticipazione” irlandese, hanno provato a rivitalizzare il poema dantesco da par loro. Ma prima di raccontare in che modo, è forse bene ricordare a chi lo sa, e spiegare a chi non lo sa, cosa sia il gruppo dell’OpLePo, e che fine si prefiggano i suoi membri.
La sigla è l’acronimo di Opificio di letteratura potenziale, traduzione italiana di Ouvroir de Littérature Potentielle, la cui sigla è invece OuLiPo.
Il gruppo francese dell’OuLiPo fu fondato nel 1960 dal letterato Raymond Queneau e dal matematico François Le Lionnais, con l’intento di far proporre ai matematici strutture e schemi di opere, di cui potessero poi disporre i letterati. I tre risultati più noti di questa collaborazione scientifico-umanistica sono stati gli Esercizi di stile (1949) di Raymond Queneau, tradotti in italiano da Umberto Eco, e i romanzi La vita istruzione per l’uso (1978) di Georges Perec e Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) di Italo Calvino.
All’insaputa di molti degli ignari lettori di queste opere, le strutture matematiche sulle quali esse si basano sono estremamente complesse. Nel caso di Calvino, ad esempio, si tratta di una serie di 42 diagrammi semiotici che indicano le possibili relazioni tra lo scrittore e i lettori reali del suo libro (lui e noi), e lo scrittore e i lettori immaginari di cui il libro racconta (i suoi personaggi).
Nel caso di Perec, invece, si tratta di una scacchiera 10 per 10, nelle cui caselle appaiono le combinazioni delle prime dieci lettere dell’alfabeto e delle dieci cifre del sistema decimale (che indicano dieci personaggi e dieci tipi di azioni), disposte in maniera tale che nessuna lettera e nessuna cifra appaia mai più di una volta in ciascuna riga e in ciascuna colonna: chi provasse a cercare a mano una di queste combinazioni, non deve scoraggiarsi se non la trova, visto che la prima fu scoperta soltanto nel 1959, e con l’aiuto di un potente calcolatore.
Il gruppo italiano dell’OpLePo fu invece fondato nel 1990 dall’ingegner Raffaele Aragona e dai francesisti Ruggero Campagnoli e Domenico D’Oria, e a coniarne il nome fu Calvino stesso, sulla falsariga dell’OuLiPo francese.
Un’opera rappresentativa dei procedimenti del gruppo è I sette cuori (1992) di Ermanno Cavazzoni e Edmondo De Amicis, in cui il primo autore (consapevole) ha effettuato sette variazioni di un brano tratto dal libro Cuore (1886) del secondo autore (ignaro), riscrivendo il famoso “Sangue romagnolo” con una serie di procedimenti che producono effetti surreali: il culinario “Sanguinaccio romagnolo”, il proverbiale “Il sangue romagnolo non è acqua”, l’attaccabrighe “Sangue sanguinario rognoso”, l’ospedaliero “Emorragia celtica”, l’ellittico “Sangue a nolo”, eccetera.
Contributi danteschi
La ricorrenza dantesca ha stimolato gli oplepiani ad alzare il bersaglio da De Amicis al Sommo poeta, e venti loro contributi sono stati raccolti in una Ridondante (2021) opera collettiva, che costituisce il 49esimo volumetto della Biblioteca oplepiana. Alcuni sono ironici, e testimoniano di una vena ludica o goliardica del gruppo: ad esempio, Antonio Fiore ha invitato alla Trattoria del Fiero Pasto coloro che siano «puri e disposti a salire alle stelle Michelin», offrendo loro un menù divino avente Farinata degli Uberti e Paté Satàn come antipasti, Spaghetti al Dante come primo, Coda di Cimabue come secondo, e Belacqua, Delle Vigne e Brunetto come bevande.
Una buona parte dei contributi si concentra invece seriamente sui testi di Dante, a partire da una loro esegesi. Paolo Albani, ad esempio, attira l’attenzione su alcuni vocaboli “joyciani” inventati dal poeta, quali “transumanare” per il superamento della natura umana, “immillare” per la crescita esponenziale, “adduarsi” e “intrearsi” per l’accoppiamento e la triplicazione, fino allo straordinario verso “s’io m’intuassi come tu t’immii”, che esprime il desiderio del poeta di immedesimarsi in un’anima del Paradiso (Folchetto) che ben si immedesima in lui. Anacleto Bendazzi accetta invece la sfida, lanciata da Dante nell’ultimo canto del Purgatorio, a risolvere finalmente, dopo sette secoli, “questo enigma forte”: identificare “un cinquecento diece e cinque, messo di Dio”, che in base a un calcolo numerologico sulle lettere del suo nome latino viene svelato essere il re Enrico VII di Germania.
Andando nella direzione di una rivitalizzazione dei versi danteschi, Laura Brignoli riscrive in quattro modi diversi il famoso sonetto “Tanto gentile e tanto onesta pare”, a partire da alcune variazioni dei due aggettivi che rimano con gli originali: da “Tanto virile e tanto lesta pare” a “Tanto incivile e tanto mesta pare”. Giuseppe Varaldo offre invece un riassunto della Commedia in tre brevi ottave, una per cantica, usando soltanto sostantivi, aggettivi e verbi usati da Dante nel suo poema, esattamente con lo stesso significato letterario.
Il titolo di mattatore della ridondanza celebrativa spetta però a Stefano Tonietto, che quest’anno ha prodotto ben tre contributi danteschi. Il primo, La Divina Commedia corretta, propone una ristrutturazione editoriale del poema per eliminare il difetto di simmetria dovuto alla ripartizione dei 100 canti in 34, 33 e 33: basta far iniziare l’opera con un vero proemio isolato, costituito da un rimaneggiamento del primo canto del Purgatorio, e farlo seguire dai primi 33 canti dell’Inferno come flashback, dal 34esimo canto dell’Inferno e dai rimanenti 32 canti del Purgatorio, e infine dagli originali 33 canti del Paradiso, per ottenere il massimo risultato col minimo sforzo.
Il secondo contributo, presentato nel 48esimo volumetto della Biblioteca oplepiana, e pubblicato integralmente in un volume autonomo intitolato Il Divino Intreccio, costituisce un vero tour de force poetico, che riscrive l’Inferno dantesco senza mai usare la lettera “a”, pur preservandone non solo il contenuto, ma anche la forma a endecasillabi con rime incatenate, da “Nel mezzo giusto dell’esister nostro” a “Uscimmo fuori, ed ecco lì stelle”.
Nel suo ultimo contributo Tonietto riprende infine l’interrogativo «Cosa avrebbe scritto Dante da vecchio?», al quale già Borges aveva inutilmente cercato di rispondere seriamente più volte. La risposta dell’oplepiano è dunque ironica: immaginando di far vivere il poeta per altri ventidue anni, fino al 1343, e considerandolo come un Superman della letteratura, egli suppone che nella propria ontogenesi poetica Dante avrebbe potuto prefigurare l’intera filogenesi letteraria: ad esempio, rimanendo coinvolto alla piemontese Sacra di San Michele nelle vere avventure de Il nome della rosa, riproponendo nel Faust un sequel del suo precedente best seller sui diavoli e le donne-angelo, e raccontando in un Ulisse medievale la giornata di un modesto mercante che gira per Firenze.
La quarta cantica
Tonietto nota apertamente che, almeno per l’ultima opera proposta, Dante avrebbe dovuto rimediare alla propria ignoranza. Infatti, più che essere quel pozzo di scienza che i suoi moderni followers immaginano che fosse, Dante non era altro che una pozza di umanesimo, e non possedeva nemmeno la cultura letteraria di un liceale classico dei nostri giorni. In particolare, come tutti i supposti “geni enciclopedici dell’Europa cattolica del suo tempo”, non conosceva Omero e i classici greci: sapeva solo che c’erano stati, grazie alle citazioni dei classici latini, e non poteva fare di meglio che citarne il nome nella noiosa lista degli “spiriti magni” parcheggiati nel Limbo.
Non era comunque colpa sua se viveva nei secoli bui della ragione, che i classicisti si ostinano a considerare illuminati dalla fede, e non era colpa di nessuno se il Medioevo veniva prima delle ère successive. In particolare, Dante non poteva conoscere ciò che gli avrebbe veramente permesso di scrivere una quarta cantica, che oltrepassando l’angusto mondo medievale del sistema solare e delle schiere angeliche, si aprisse all’augusta visione moderna del cosmo e della vita. Dante sapeva che «non eran da ciò le proprie penne», ma non sospettava che la strada corretta l’avesse già indicata nel De rerum natura (-50 ca.) un Lucrezio a lui sconosciuto, la stesse percorrendo nell’Acerba (1327) il suo più ardito contemporaneo Cecco d’Ascoli, e l’avrebbe ripresa nella Piccola cosmologia portatile (1950) l’oulipiano Queneau.
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