«Questo è il libro dei fatti, delle azioni autentiche di un gruppo di insegnanti di base organizzati come franchi tiratori, al margine dell’ortodossia pedagogica e operanti controcorrente, spesso in modo clandestino, per il rinnovamento della scuola del popolo». Comincia così la prefazione di Élise Freinet a La nascita della pedagogia popolare, apparso in Francia nel 1949. Un libro che ripercorre i quarant’anni di esperienza della pedagogia Freinet, ossia quella pedagogia eccezionale che Célestin e Elise Freinet hanno messo a punto grosso modo a partire dal 1920 attraverso «strumenti e tecniche che permettono nuove forme di lavoro» più adatte alla vita dei bambini e delle bambine. Quarant’anni durante i quali, con continue sperimentazioni e in dialettica con il vasto mondo dell’Educazione nuova, si è andato consolidando un ampio ventaglio di strumenti, pratiche e dispositivi per una «pedagogia di massa» attenta al rapporto immediato tra scuola e vita.

Promessa irrealizzata

All’interno del libro, come in tutta l’opera dei coniugi Freinet, si trovano infiniti spunti per rinnovare le attività scolastiche, per cambiare la vita di classe, per dare forma ad esperienze di apprendimento secondo tempi, bisogni, modalità di ciascuno/a. Sono raccontati i mille tentativi –  carsici, clandestini e controcorrente – di trasformare la scuola, prima nelle classi e poi organizzando un movimento di insegnanti.

Eppure, questo libro strabiliante che è il testamento degli sforzi compiuti per «superare un ritardo che rischia(va) di compromettere per sempre l’educazione democratica», fa impressione se lo si guarda con gli occhi di oggi, considerati i problemi della scuola che sembrano essere (quasi tutti) ancora lì. Quella che appariva come una strada tracciata è rimasta, finora, una promessa irrealizzata.

Scriveva Célestin Freinet: «Nessuno [di noi] ha cominciato con una classe ben attrezzata dove lavorare per raggiungere un nuovo livello, in contrasto assoluto con ciò che avevamo condannato fin da allora. No. Abbiamo iniziato nella miseria delle nostre classi; dei direttori e dei colleghi che spesso ci ritenevano folli e visionari quando ci vedevano bruciare ostentatamente tutto quello che essi adoravano».

Senonché non sembra essere cambiata molto la situazione, se leggiamo quanto ha scritto recentemente l’insegnante Federica Lucchesini nel libro Alfabeto della scuola democratica (Laterza, 2024): «Nelle nostre scuole mancano gli schedari autocorrettivi, gli arredi e gli oggetti che permettano le realizzazione di opere: le cassette di attrezzi per costruire con fil di ferro, scotch, cartone, martelli e così via le dobbiamo comprare e portare noi in classe ogni anno».

Per una scuola democratica

Ed è solo uno degli infiniti esempi della fatica quotidiana per fare una scuola viva, una scuola che – ahinoi – non è mai diventata mainstream. Una fatica che si sobbarcano ogni giorno centinaia di insegnanti, senza l’aiuto dello Stato (e in alcuni casi contro di esso), senza che le classi siano state ripensate per accogliere la didattica attiva, senza che i regolamenti per la sicurezza siano bilanciati ai bisogni di esplorazione e libertà dei bambini e delle bambine. Eppure, quelle tecniche si sono dimostrate mille volte valide, provare per credere, come fanno centinaia di insegnanti del Movimento di cooperazione educativa ogni anno: corrispondenza scolastica, testo libero, giornalini, inchieste, schedari autocorrettivi, disegno libero, esposizioni, albi, manifesti, conferenze, viaggi, gare sportive e culturali, gite.

Attività che danno frutti concreti, che ogni anno vengono condivise, insegnate, ragionate in occasioni continue di formazione e auto-formazione, gruppi di discussione e analisi di pratiche. Un patrimonio democratico e collettivo fatto di insegnanti che si riuniscono e si formano su base volontaria e libera perché sentono il bisogno di un’altra scuola, perché sanno che essa è possibile (insieme), perché sanno che essa risponde ai bisogni delle bambine e dei ragazzi. Comunità adulte di ricerca e lavoro cooperativo, di invenzioni e di progettazioni, di immaginazione e creazione: esperienze formative progettate e desiderate con cura che cambiano le/gli insegnanti e piano piano cambiano la scuola.

Eppure, questo patrimonio vitale per la scuola democratica non è mai sufficientemente visibilizzato, mai sufficientemente raccontato dalla stampa, mai sufficientemente favorito,  incentivato, promosso da chi ne avrebbe strumenti e potere. Così dopo settantacinque anni dall’uscita di Nascita di una pedagogia popolare, da sommarsi ai precedenti quaranta nei quali la pedagogia freinetiana ha preso forma, gli/le insegnanti ancora si (s)battono perché una scuola democratica, attiva, cooperativa e inclusiva possa esistere. E lo fanno senza e contro le istituzioni, contro la politica, contro i pedagogisti di professione.

Le due concezioni

E perché stiamo messi così? Tra gli ostacoli maggiori al cambiamento della scuola ci sono senz’altro quelli di ordine culturale, che vivono negli insegnanti, nei politici, nella stampa, nelle persone comuni. Impedimenti che sono, da una parte, legati alle concezioni antropologiche circolanti e maggioritarie: com’è fatto l’essere umano? Come apprende? Con quali tempi e modalità? E, dall’altra, legati alle concezioni politiche: che cos’è la democrazia? Come va organizzato e spartito il potere? Cosa dev’essere la scuola democratica? La pedagogia è sempre una domanda intorno a quali capacità è possibile sviluppare (concezione antropologica) ed entro quali rapporti di potere (concezione politica).

Intorno alle concezioni antropologiche va rilevato che il senso comune dell’Italia contemporanea tende a considerare che naturalmente alcune persone sono più idonee per certi compiti considerati “bassi” e “manuali” (guarda caso prevalentemente i figli delle classi disagiate) e, naturalmente, altre più atte a compiti astratti e concettualmente complessi (guarda caso prevalentemente i figli delle classi agiate). Così come naturalmente ci sono studenti adatti al contesto scolastico e altri inadatti: persone capaci di stare ferme, sedute, zitte, composte mentre altre no.

Questo fa il paio con la concezione politica: nell’Italia contemporanea è minoritaria l’idea di democrazia come autogoverno del popolo, come uguaglianza radicale degli individui, come rispetto e inclusione delle diverse forme di esistenze. Per la maggiore va una concezione procedurale della democrazia associata, quasi sempre, a concezioni classiste, gerarchiche e autoritarie del potere.

Gli individui e l’istituzione

Ma il punto è tutto qui, la possibilità di cambiare il dispositivo-scuola si materializza solo se si prende seriamente la domanda politica: che cos’è la democrazia e, dunque, la scuola democratica? O essa è il luogo dell’inclusione, che contempla corpi, pensieri, funzionamenti diversi e variegati, o non è. La gestione del potere in maniera paritaria, la circolazione della parola, la possibilità di incidere sul proprio ambiente di vita, sono tutti fattori centrali di una concezione democratica della società e della scuola. Se perdiamo questi principi perdiamo il bandolo che ci permette di orientare gli sforzi della scuola in un senso emancipativo.

Al contrario, le teorie pseudo-innatiste, gerarchiche e autoritarie di cui sopra minimizzano il peso dei processi di socializzazione svolti dalle istituzioni scolastiche (ossia scuole connotate e organizzate in un certo modo), privilegiando il peso della natura: si sposta la questione sull’individuo, ignorando le reali possibilità di cambiamento che la scuola, una scuola diversa, potrebbe avere. La scuola, in buona sostanza, non potendo cambiare le persone, secondo questa logica, deve contenerle. Che è il giochino di ogni destra da sempre: anziché adattare le istituzioni agli individui, intende adattare gli individui alle istituzioni. Anziché discutere le rigidità e le inadeguatezze dell’istituzione scuola rispetto alle pluralità di corpi, funzionamenti, intelligenze, temperamenti, si discutono gli individui, definendoli inadatti, devianti, non portati, svogliati, pigri e quant’altro.

La pedagogia Freinet, di contro, sta proprio a dimostrare che quando la scuola soddisfa le esigenze primarie degli alunni (conoscenza di se stessi e del mondo, controllo sul proprio processo di apprendimento, cooperazione tra alunni, occasioni di manifestazione creativa, rapporto immediato tra scuola e vita e, in definitiva, soddisfazione del bisogno di esplorazione, ricerca, organizzazione, decisione), allora il problema delle differenze di “attitudini” e “capacità” tra gli/le alunni/e di fatto scompare, insieme ai problemi comportamentali, a favore di generalizzate capacità costruttive ed espressive.

Oggi la scuola è ancora largamente immobilista, verbocentrica, frontale e “sconcreta” e produce nevrosi e alienazione, in assenza di una riappropriazione decisa del processo educativo e di un suo riavvicinamento alla vita. Perciò oggi ancora, ad anni di distanza dall’avvio della rivoluzione scolastica attiva e democratica, occorre lavorare per «un cambiamento radicale nelle tecniche di lavoro e di vita, un cambiamento di tendenza, senza cui la riforma scolastica resterà velleità e illusione». Ed «è tutta la concezione dell’apprendimento che dobbiamo cambiare», maestra per maestra, genitore per genitore, cittadina per cittadina. Per fare, finalmente, una scuola popolare all’altezza delle nostre bambine.

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