Se è vero che la crisi del calcio italiano è immanente, è anche vero che c’è sempre un calciatore o un allenatore e una squadra che sembrano in grado di scartare di lato e vincere o illudere di riuscirci. Si alternano crisi e soluzioni, come in un campo grano e maggese. E la vetta del calcio italiano è la Nazionale che dopo la vittoria dell’Europeo (2021) pareva aver risolto il mancato Mondiale in Russia (2018), ma è ri-caduta nella crisi di un altro Mondiale mancato (Qatar 2022) e con la crisi, dopo un lungo barcollare, sono arrivate le dimissioni di Roberto Mancini che ne hanno aperta una ancora più profonda – ci fosse un cinema italiano sarebbe il 1929 calcistico – che, però, da tunnel è diventato ponte che porta a Luciano Spalletti.

La prima vita

Un allenatore che nella sua prima vita, quella a.S. (avanti scudetto) era considerato bravo, ma divisivo. C’erano stati i casi Totti e Icardi, poi revisionati e ridimensionati anche dai protagonisti nella seconda vita di Spalletti, quella del d.S. (dopo scudetto), la vita da salvatore. Fino allo scudetto del Napoli era un venerato maestro di calcio dalla vena pirandelliana: uno, nessuno e centomila. Dopo è diventato un venerato maestro di calcio e basta. La sua filosofia negli anni si è raffinata, il suo carattere si è limato, purtroppo non cambieranno le sue pause celentanesche né le sue metafore in conferenza stampa. Ma è una certezza, fin da quando portò l’Udinese in Champions League. «Era già straordinerio allora», direbbe Arrigo Sacchi.

Però gli mancava il “titulo” italiano, e quelli russi non bastavano agli pseudo giudici, anche se la sua biografia calcistica era piena di straordinari che, però, non garantivano-per (il dibattito è aperto, basta guardare a Roberto De Zerbi). C’era sempre un però che cominciava e finiva col “caso T.”, che oggi anche il signor T. tende ad abbozzare, avendo conosciuto altri dolori con Rolex di contorno. La contrapposizione tutta romana con Francesco Totti ha fatto male a entrambi, ma è anche servita a entrambi. Contrapposizione riassumibile in: gioco poco, non gioco, ok smetto. E in: non posso farti giocare. Questo è il tempo che posso darti. Ok, non abbiamo nulla da dirci. Quella successiva con Mauro Icardi, quando allenava l’Inter, non è servita a nessuno. Per Spalletti era una replica al ribasso di una situazione che conosceva già e per Icardi una prova di maturità mancata, con la complicità della sua procuratrice-moglie.

Pelle, cuore e scudetto

Ma Spalletti sa, con Pasternak, fin dai tempi dello Zenit, che «vivere una vita non è attraversare un campo» di calcio. E a Napoli ha fatto i conti con la sua vita precedente. Dopo aver espresso un calcio che ha impressionato Pep Guardiola – veloce, aggressivo, esteticamente alto e con il terzino Di Lorenzo tuttocampista – ammazzando il campionato italiano e parte della Champions League, vincendo lo scudetto voleva starsene a ripensare all’impresa come chi dopo una vita in terza classe scopre l’Arabia – si fa per dire –, ma era una Arabia napoletana, anche tatuata sul braccio, come un grande amore. Pelle, cuore e scudetto.

Invece, la sua seconda vita non era da rimembrante, ma da agente. L’uomo della divisione al giro di boa di Ferragosto era diventato l’unico capace di compattare l’Italia pallonara e salvare quella calcistica. Oplà. Dalla panchina del Napoli a quella della Nazionale senza nemmeno veder crescere i pomodori. Senza allenare sua figlia Matilde come auspicava, giusto un ritiro pre-familiare. Ma in tempo per scazzare definitivamente con Aurelio De Laurentiis. L’altro Spalletti ne avrebbe fatto una faida, il nuovo ha sorvolato.

Nella prima vita era malapartiano, nella seconda è terzaniano. Due tipi di toscani: Curzio Malaparte, belligerante col mondo e gli uomini; Tiziano Terzani, comprensivo col mondo e l’umanità. È la sua seconda vita, quella da generoso, da enzima, tanto che in pochi giorni a Coverciano ha lasciato immaginare altre seconde vite: quella di Gigio Donnarumma che ritrova Gigi Buffon e forse una tranquillità che a Parigi non ha mai conosciuto, anche per via della lingua; quella di Manuel Locatelli che torna in Nazionale e candidamente rivela che con Mancini si sentiva Bach con i Måneskin; quella di Sandro Tonali che dal Milan è stato catapultato al Newcastle; quella di Ciro Immobile che può ritrovare la centralità e forse il gol; e soprattutto quella di Jack Raspadori che finalmente si vede riconosciuto il proprio ruolo, di numero nove, viene messo al centro dell’area e del progetto: che è come ricongiungersi con sé stessi dopo aver vagato da una fascia all’altra del Tennessee. Spalletti gli sta regalando campo e futuro.

E poi ci sono gli altri, i non convocati che potranno avere una seconda vita, come chiedono di averla la Nazionale e il calcio italiano. Spalletti arriva sulla panchina come solo Sacchi prima, non per familismo federale, ma per manifesta superiorità calcistica più crisi ontologica. Non c’è l’ammicco, ma la fretta di una qualificazione all’Europeo da conquistare. Basta guardare il proprio manuale: “Seconda vita come fare per ottenerla”. E se ti sei arrangiato in provincia con quello che passava il calciomercato, se hai resistito all’assedio romanista per il reato di usurpazione tottiana, hai fatto i campi de “La Pinetina” che fanno impallidire Tolkien, e se hai dribblato il «sultano» De Laurentiis e le ossessioni amorose napoletane: allenare la Nazionale è facile. Puoi pescare e ripescare tutto quello che vuoi e forse anche trovare una terza vi(t)a calcistica.

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