La protagonista di questo successo globale è una piattola insopportabile che vive in un mondo di successi facili senza attriti reali. Il trionfo dell’hate watching. Non proviamo talmente più niente nelle nostre vite ordinarie che per sentirci vivi ci basta un’americana troppo sicura di sé da detestare
- Emily è una giovane donna di Chicago e il fatto che è giovane e di Chicago è praticamente tutto ciò che sapremo sul suo personaggio alla fine di queste dieci puntate.
- Mentre beve da sola in un bistro viene rimorchiata da un professore di semiotica che sembra un modello di Ralph Lauren. Brigitte Macron in persona ritwitta una sua acuta osservazione sul fatto che “vagina” in francese è maschile e il post diventa virale, qualsiasi cosa significhi.
- Ci vuole un discreto talento anche per creare un prodotto perfettamente orribile come Emily in Paris, che in un colpo solo riesce ad essere offensivo verso tutti e ciononostante viene divorato nell’arco di 48 ore in tutto il mondo
A diciotto anni appena compiuti passai l’estate a Parigi a studiare il francese, ma più che altro a mangiare panini allo chèvre. Avevo una stanza spoglia da suora di clausura in un dormitorio studentesco, pochi amici, pochi soldi e il metabolismo velocissimo.
Il livello di glamour in generale era molto basso, ma all’epoca Instagram non esisteva e non eravamo obbligati a vivere ogni esperienza secondo parametri di fotogenia. Io di certo ne ero ben lontana. La prima sera in città, non sapendo dove sbattere la testa, cenai con un pacchetto di cracker e una banana e guardai L’odio sul computer. Oh là là!
Durante la prima visita al Louvre mi resi conto, all’altezza della Zattera della medusa, che me ne stavo andando in giro con una striscia di carta igienica attaccata a una scarpa. Quelle élégance! Invece di sorseggiare vini pregiati con gli autoctoni, frequentavo un ragazzo spagnolo che non andava da nessuna parte senza una bottiglia extra-large di Desperados e bazzicavamo insieme locali gay dal distinto odore di sperma. Trés chic!
Una giovane donna di Chicago
Le cose vanno in modo molto diverso a Emily Cooper, protagonista di Emily in Paris, la nuova serie di Darren Star (creatore di Sex and the City, Beverly Hills 90210 e Melrose Place) che è abbastanza brutta da farti arrabbiare, ma non abbastanza da farti smettere di guardarla.
Emily è una giovane donna di Chicago e il fatto che è giovane e di Chicago è praticamente tutto ciò che sapremo sul suo personaggio alla fine di queste dieci puntate. L’azienda per cui lavora acquisisce un’agenzia di marketing di Parigi che si occupa di marchi di lusso, e senza pensarci due volte Emily mette in valigia tutti i suoi gadget a forma di Tour Eiffel e si trasferisce in Francia in quanto esperta di social media.
Il detto “ambasciator non porta pena” non si applica in questa storia, perché la protagonista, presentata come ambasciatrice del “punto di vista americano” per il mercato francese, è una piattola insopportabile e giustamente in ufficio la odiano tutti. Fuori dall’ufficio però Emily sembra avere la capacità di sedurre chiunque nonostante possieda la sensualità e il gusto di una bambina piccola: «È bellissimo, tutta la città sembra Ratatouille», esclama deliziata durante una videochiamata con il fidanzato di Chicago.
Non ha tutti i torti, ho pensato, ricordandomi della sera in cui dovetti aspettare mezz’ora prima di poter entrare in casa, perché il portone era presidiato da un branco di topi alle prese con un sacco della spazzatura.
Emily non ha problemi di topi in casa, in compenso il suo vicino è uno chef bonissimo che per ragioni misteriose la trova irresistibile. Il fidanzato – che verrà mollato presto – si eccita a guardarla su FaceTime mentre lei giace inerte nel suo letto con il piumone tirato su fino al mento.
Mentre beve da sola in un bistro (al Café de Flore, mica cotica), viene rimorchiata da un professore di semiotica che sembra un modello di Ralph Lauren e che si rivelerà anche un abile amatore (all’università ho avuto un professore di semiotica, aveva la forfora nei baffi). Brigitte Macron in persona ritwitta una sua acuta osservazione sul fatto che “vagina” in francese è maschile (inaccettabile! pensa Emily, che non parlando una parola di francese è sempre stupita dal concetto di genere) e il post diventa virale, qualsiasi cosa significhi.
Ma soprattutto non c’è un cliente dell’agenzia che non ritenga le sue idee valide e preziosissime, e qui è dove la serie ci perde davvero, a noi venti-trentenni abituati a cambiare i rotoli di carta igienica nel bagno dell’ufficio.
È difficile guardare Emily in Paris senza farsi esplodere un paio di vene, soprattutto per chi ha a che fare con il mondo della moda, che è noto per essere il festival dell’umiliazione gratuita. Credo che la mia amica a cui durante la fashion week hanno letteralmente tirato una pianta, con il vaso e tutto quanto, sarebbe d’accordo con me.
Fa schifo ma è perfetto
Eppure da quando è uscito a inizio ottobre Emily in Paris è in cima alla classifica dei programmi più visti su Netflix e sui social sembra che nessuno stia guardando nient’altro. L’internet è invaso da recensioni che dicono più o meno tutte la stessa cosa: fa schifo, ma è perfetto per l’hate-watching, che è tanto vero quanto deprimente.
È la nostra versione del fight club, ma senza violenza fisica e, purtroppo, senza gli addominali di Brad Pitt: non proviamo talmente più niente nelle nostre vite ordinarie, che per sentirci vivi ci basta un’americana troppo sicura di sé da detestare.
Quando mi sono trasferita a Milano, nove anni fa, ero una diciannovenne che non sapeva fare niente e il mio interesse ricadde in modo abbastanza casuale e un po’ per esclusione sull’editoria. Dire che l’ho presa alla larga è riduttivo. Il mio primo lavoro consisteva nel volantinare fuori da teatri e librerie durante i giorni di un festival letterario (ve li ricordate i festival? No, neanch’io).
Il primo fondamentale consiglio di carriera lo ricevetti da un ragazzo senegalese che vendeva i libri su Nelson Mandela davanti alla Hoepli: se stai all’aperto a novembre farai meglio a indossare dei guanti.
Quasi un decennio più tardi tutte le mie mansioni si svolgono al chiuso e un paio di cose dopotutto le ho imparate, ma mi sento sempre l’ultima ruota del carro. Un po’ c’entra una mia predisposizione caratteriale all’ultimaruotadelcarrismo, un po’ credo che sia così che ci si sente a quest’età.2
Non so se sia una questione femminile o generazionale o italiana o se non sia neanche una questione, ma forse è per questo che Emily, con il suo successo privo di conflitti reali, i suoi vestiti costosi, i suoi uomini attraenti, i suoi ventimila follower ottenuti senza sforzo con foto di croissant e autoscatti dalle didascalie ragionate più o meno quanto un rutto ci fa venire voglia di spaccare il computer a calci.
Certo, se avessi sentito bisogno di realismo mi sarei vista un documentario o avrei ripescato il dvd dell’Odio, ma se volevo vedere una serie di fantascienza mi guardavo Star Trek. Dov’è la complessità? Dove sono le crisi di pianto, gli herpes da stress, i conti in banca desolati?
Sono in un’altra serie. Anche la protagonista di I May Destroy You (serie inglese creata, scritta e interpretata dalla bravissima Michaela Coel, classe 1987) è un’influencer, ma nel suo caso la vita non è tutta un pain au chocolat. Coel interpreta Arabella, una ragazza di Londra di origini ghanesi diventata famosa su Twitter e autrice del libro Chronicles of a Fed-Up Millenial (Cronache di una millenial esasperata), ora alle prese con il suo secondo libro, che proprio non le viene.
Una sera esce con gli amici. La mattina dopo, con un taglio in fronte e i ricordi confusi, si rende conto di essere stata drogata e stuprata da uno sconosciuto e dovrà provare a ricostruire gli eventi e a fare i conti con questo trauma.
Nonostante il tema non proprio esilarante del consenso, i dodici episodi sono pieni di umorismo e di spunti non banali sul sesso, sui social, sull’identità di una generazione. Sarà che l’ha scritta una ragazza con qualcosa da dire e non un sessantenne miliardario?
Non voglio dire che debba essere tutto sempre problematizzato e nemmeno che sia necessario immedesimarsi in qualsiasi narrazione per apprezzarla. Alla fine non ce ne andiamo in giro per Parigi come la deficiente dell’Illinois, ma per fortuna non abbiamo neanche tutti esperienza di una violenza sessuale come Arabella.
È difficile staccare gli occhi dall’incidente in autostrada
Per dirla con i Cccp: è una questione di qualità. Da una parte abbiamo la scrittura, una storia e un personaggio del nostro tempo; dall’altro c’è una donna che nel 2020 si masturba con un vibratore col filo (e fa saltare la corrente nell’isolato, perché in Europa, com’è noto, abbiamo appena abbandonato le lampade a olio per l’elettricità).
Tuttavia ci vuole un discreto talento anche per creare un prodotto perfettamente orribile come Emily in Paris, che in un colpo solo riesce ad essere offensivo verso tutti (i francesi, i cinesi, gli influencer, gli stilisti, le donne, gli uomini, Edith Piaf, i croissant) e ciononostante viene divorato nell’arco di 48 ore in tutto il mondo. È difficile staccare gli occhi dall’incidente in autostrada. Come nel finale di Fight Club, non ci resta che ammirare il disastro in silenzio. C’est magnifique!
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