«Quello con la t-shirt bianca o quello viscido?» «È quello di spalle». «È quello viscido allora». «Che cazzo ne sai? È di spalle». «È viscido, si vede».

 L’ha detto in un modo scivoloso per cui mi sono immaginata una lumaca grassa che mi entra nella gola da sotto e poi mi esce dalla bocca. La mia migliore amica pensa che il tipo che mi scopo sia viscido. Le guardo la fronte sudata, uguale alla mia, perché corriamo da cinque chilometri come due anoressiche di merda. Anche lei mi sembra viscida, io sono viscida. E dentro siamo tutte molli e, per quanto ci sforziamo di darci una struttura muscolare, restiamo sacchi di roba molle vestiti a seconda dell’occasione.

Disgusto

Forse è davvero viscido, ma che cazzo ci posso fare? Ho smesso di pensarci quando mi ha infilato dentro due dita, così bene, che forse sono diventata viscida come lui e non ci ho più pensato. Sono grosse, e sinceramente ho dei problemi con le cose grosse che mi entrano dentro, ho sempre questa voglia di essere riempita, eppure mi fa schifo. «Sei disgustata dalla condizione femminile», fosse solo quello il problema dottoressa, non sono le donne, non sono neanche gli esseri umani a essere onesta. Per esempio sono disgustata anche dai cani e dai cavalli, quando scopano e quando soffrono, per fortuna esistono i cartoni animati, senza carne da maciullare e morte e sofferenza e penetrazione e niente è viscido, niente è molle. Allora, la mia dottoressa mi dice che ho dei problemi con la realtà e con le cose molli.

Mi chiede: «Cosa ti viene in mente di molle?», «Il formaggio, la gelatina, la placenta». Il mio vicino, che è ricco e molle. Nel condominio dove abito sono quasi tutti così, fanno parte della porzione umana che spegne la sigaretta nella tazzina del caffè perché qualcuno sistemerà quel piccolo schifo al posto loro. C’è un ragazzo con la sindrome di Tourette, che vive con i genitori e grida soprattutto troia, ogni giorno lo fa almeno due volte, e nel fine settimana molto di più perché credo stia più tempo in casa. Accanto a me ci abita una cantante lirica che si esercita accompagnata non so se da un cd o da un pianoforte vero. Comunque ne nasce questo pezzo voce e pianoforte classico con inserti acid tecno troia, troia, troia.

In questa atmosfera della domenica mattina, succede che lui, che secondo la mia migliore amica è viscido, si alza e deve andare a fare delle commissioni, io lo lascio andare perché non saprei che altro aggiungere e non so se ci rivedremo il giorno stesso o la settimana dopo, francamente il dubbio non mi tormenta, non mi fa venire mal di testa, né di stomaco.

Solitudine

Vado di nuovo a correre con la mia migliore amica, ci fermiamo in un parco giochi e lei saluta una tipa strana, con due figli strani, un po’ stronzi se mi posso permettere di dire che esistono bambini stronzi. Chiedo alla mia migliore amica come mai conosce questa stronza. Praticamente da bambine erano nobili insieme.

«Guarda come cazzo stai seduta, di sicuro tu c’hai un aiuto cuoco nel pedigree», grazie a dio per quell’aiuto cuoco che altrimenti pure la mia migliore amica era stronza così. Comincio a immaginarmi questo ragazzino magro che è appena arrivato a palazzo, a coorte, come aiuto cuoco, clavicembalo di accompagnamento, e lui è magro con il nasone e viene adescato da una nobile che sta sempre in casa a giocare a volano con Lady Cocca, e lei resta incinta e tre generazioni dopo nasce la mia migliore amica che si siede sulle panchine con le gambe aperte e la schiena di un lombrico, mentre corre e si allena insieme a me per la sua emancipazione dorsale. Ci salutiamo, lei parte per la campagna con il suo ragazzo e io no perché non ho un ragazzo.

Dopo due giorni senza incontrare neanche una persona di cui so il nome, mi sento terribilmente depressa e mi dico che dovrei trovare la voglia di chiamare qualcuno. Guardare le facce di persone che non vedrò mai più, al cinema, al take away, sotto casa, mi mette una certa tristezza, perché è come vedere una fila di malati terminali che smettono di esistere poco dopo. Non rivedo più nessuno di loro.

Sakè e all you can eat

Così quando Noura mi scrive che c’è una sua amica in città e che non conosce nessuno, mi sento quasi felice. Le dico di mettermi pure in contatto con lei. Si chiama Masami. Viene dall’altra parte del mondo, che è una parte del mondo che non ho mai visto, i giapponesi giovani che studiavano in accademia con me erano sempre più calmi degli altri, e alcuni si vestivano bene, proprio bene, con le linee dritte e i colori che sembrano canne di bamboo. Aspetto Masami alla fermata della metro con il neon di un all you can eat che mi spruzza in faccia.

Mi sento piatta dalla fame e immobile dalla noia, con queste macchie di neon addosso, come se un robot si fosse masturbato sulla mia fotografia e non avesse pulito. Non so che impressione do a prima vista, forse che sono timida all’inizio, sicuramente che sono magra. Masami arriva in ritardo e scopro che mi batte di brutto in entrambe le cose, allora cerco altre caratteristiche per me, non mi viene in mente niente.

Non capisco se è completamente a suo agio o a disagio, tipo: mi ha dato appuntamento a questa fermata dimenticata dal mondo perché in zona c’è un posto che fa un sakè della madonna. Poi, invece, decide di entrare nell’all you can eat di merda, che è più vicino e che vende la birra che le piace, allora ci sediamo e sta stronza ordina solo sakè. Ma faccio finta di niente.

Perché alla fine sono disperata e non c’è nessun altro che mi vuole vedere. Le chiedo delle cose normali. Fa la parrucchiera, e potrei pure crederci se non sapessi che Noura fa la escort da quando ha diciassette anni. A Parigi quando studiavo in accademia uscivo tutte le notti e non parlavo francese. Le uniche che uscivano tutte le notti come me e non parlavano francese erano le escort, per questo a Parigi ho solo amiche escort. Però Masami non sembra. Ci metto un po’ a capire la mappa della sua vita, metto insieme i pezzi quando lei ha la sensazione che potremmo diventare amiche e mi racconta tutte le robe e ogni tanto le numera sulle dita per ricordarsi la cronologia nel suo cervello mezzo rotto, sembra l’abbiano pucciata nell’inferno da quanto è sballata, è così sballata che sembra davvero maledetta da quando è nata.


Il testo è un estratto di Metropolitania (Fandango 2022, pp. 176, euro 17), romanzo d’esordio di Carolina Cavalli

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