Davanti alla scomparsa di una star planetaria e strapaesana, perfettamente glocal, occorre iniziare da alcune domande-chiave: chi è stata Raffaella Carrà? Cos’è stata Raffaella Carrà? Come è stata Raffaella Carrà? Dove è andata Raffaella Carrà?

L’ultimo quesito sembrerebbe il più semplice, visto la vignetta che circola in questi giorni ritraendo Dio in persona, nell’atto di ballare il tuca tuca con lei. Naturalmente il sacro dito mira all’ombelico della diva, l’omphalos greco, l’ombelico del mondo – ma con l’incredulità di un San Tommaso intento a tastare dubbioso questa nuova divinità appena assunta in cielo. Apoteosi di Carrà, insomma, sebbene con risvolti piuttosto enigmatici.

Una mostra è organizzata al Jeu de Paume di Parigi nel 2020 da Peter Szendy, Emmanuel Alloa e Marta Ponsa con il titolo The Supermarket of Images descriveva la nostra esistenza in un mondo sempre più saturo di immagini. Basti pensare (ma il numero è per difetto) che sui social network vengono condivise ogni giorno più di tre miliardi di immagini. Nel libro all’origine della mostra, l’aspetto economico dell’esistenza delle immagini è chiamato iconomy, in quanto immagini di economia coinvolgono sempre l’economia dell’immagine e viceversa (cito da un articolo apparso su Digicult). Ebbene, se lo spazio di visibilità sembra essere ormai traboccante, come se non esistessero più spiragli vacanti, pure, alcune di queste immagini riescono a imporsi con una forza miracolosa. E qui torniamo a Carrà.

Confesso che tale concetto di donna-stemma mi ha sempre affascinato per la sua estrema disponibilità, per la sua totale apertura. Chi è stata Raffaella Carrà? Su Wikipedia la si definisce showgirl, cantante, ballerina, attrice, conduttrice e autrice televisiva. Ma diciamo la verità: per noi rimane una specie di ologramma, un vortice coreutico e canoro, una danzatrice che danza a modo suo, e a modo suo canta, e allude e stuzzica e accende (da cui l’intraducibile aggettivo francese “allumeuse”). Non per niente, in un mondo ancora totalmente patriarcale, il quotidiano britannico Guardian la incoronò sex symbol continentale, definendola «l’icona culturale che ha insegnato all’Europa le gioie del sesso». Troppa grazia, e troppi errori, perché Carrà non insegnava niente, ma tutt’al più suggeriva, e proprio in questo stava il suo magnetismo.

Politica sessuale

Parentesi: a proposito di mondo patriarcale. Ma non è incredibile che a Milano, la patria della borghesia illuminata e illuminista di Verri e Beccaria, su su fino ad Arbasino, la statua di Cristina Trivulzio di Belgiojoso sarà l’unica, su ben 121, dedicata a una donna (fatta eccezione, ovviamente, per la Madonnina)? Con ciò non voglio certo proporre Carrà a seconda figura femminile da effigiare nel marmo o nel bronzo. Dissento, anzi, dall’enfasi con cui la presidente del Senato, Elisabetta Casellati, ha scritto su Twitter che la sua assenza è un “rumore” al quale non ci abitueremo mai. Altre sono le assenze a cui non ci si potrà mai rassegnare. Tuttavia questa digressione gender serve a contestualizzare il fascino carrambico, collocandolo all’interno di una politica sessuale ormai, e per fortuna, irrimediabilmente datata.

Basti pensare a Sordi (cui allude la figura di Dio nell’illustrazione ricordata), che impazzisce, delira, davanti alle movenze della sua Salomè. Se solo la danzatrice dei sette veli gli avesse chiesto la testa di San Giovanni, Albertone se la sarebbe procurata di corsa. In un recente articolo, Andrea Cortellessa parla di anancasmo (dal greco “costrizione, violenza”) come sinonimo di ossessione, con una specifica accezione psichiatrica. Ecco, la scena del tuca tuca mostra il maschio preda di un’ossessione senza rimedio.

Ora, secondo Cortellessa, le figure anancastiche per antonomasia sono nientedimeno che le Ninfe. Proviamo a vedere perché. Negli ultimi anni, come è stato notato, studiosi come Roberto Calasso, Jean-Luc Nancy e Giorgio Agamben, con ricerche a cavallo tra letteratura, filosofia, storia dell’arte e antropologia, sono stati attratti da queste antiche creature mitologiche, che stringono uno strettissimo legame tra Anima e Sessualità. Fenomeno di “divina follia”, per i Greci la possessione andava riportata alla figura della Ninfa, «provocatrice della possessione primigenia, la possessione erotica, che colpisce non solo gli uomini ma gli dèi». Il libro di Calasso del 2005, La follia che viene dalle ninfe, indagava appunto una «conoscenza attraverso la possessione».

Da qui alla Lolita di Vladimir Nabokov (e poi di Stanley Kubrick) il passo è breve, e memorabile il suo insegnamento: «Possedere significa essere posseduti». Così, dall’inno omerico ad Apollo, fino ad Aby Warburg, questi «esseri delicatissimi e oscuri, fascinosi e terribili», continuano a proliferare nel nostro mondo, e specialmente nel cinema, con La finestra sul cortile di Hitchcock o grazie al guanto sfilato di Gilda. Carrà come una Ninfa, allora? E perché no? D’altronde, per quanto salutata come «la regina della tv italiana» o «l’icona della musica e del ballo», Raffaella studia al Centro sperimentale di cinematografia di Roma e debutta nel cinema partecipando a vari film e provini (venne bocciata per il ruolo di figlia di Sophia Loren nella Ciociara di De Sica). Lavora con registi quali Blasetti, Vancini, Monicelli, Lizzani, e una volta le capita come partner Frank Sinatra. Ma Raffaella può dirsi Ninfa soprattutto perché la sua arte è stata sì trasversale, differenziata, diagonale, ma sempre e esplicitamente seduttiva. Né è casuale il fatto che tanto slancio eroticamente ecumenico le abbia fatto ricevere il premio di “icona gay mondiale” al World Pride di Madrid nel 2017.

Bello il suo allegro messaggio bilingue: «Vivete questa settimana in allegria, ma le lotte non sono finite. C’è ancora mucho camino da compiere per abbattere i pregiudizi». Quanto alla sua natura iconica, per non dire pittorica, niente di meglio che rievocare la nascita del felice pseudonimo. L’idea di ribattezzarla venne, negli anni Sessanta, a Dante Guardamagna. Appassionato d’arte, il regista cancellò per sempre Raffaella Maria Roberta Pelloni. Trattenendo soltanto il primo nome in onore di Raffaello Sanzio, questo singolare pigmalione (ma affezionato ai quadri, anziché alle statue!) lo associò al cognome di Carlo Carrà. Niente da dire: gioco, partita, incontro.

L’età non conta

Torniamo però al Supermarket of Images. Dunque, in una ecosfera caratterizzata da una travolgente sovrapproduzione di immagini, cosa ha rappresentato Raffaella Carrà, e perché si è imposta con una forza tanto devastante? Intanto, un po’ di numeri: la cantante-danzante ha venduto oltre 60 milioni di dischi in tutto il mondo. E non limitiamoci a menzionare la Spagna, che oltre a insignirla dell’onorificenza di Dama all’ordine al merito civile nel 2018, due anni dopo produsse una commedia-musicale interamente basata sulle sue canzoni. Anche al di là dell’universo latino, il suo successo risulta galattico. Prova ne sia che, continuo a wikicitare, durante una puntata in cui era ospite di Pippo Baudo a Domenica In, confessò di possedere 22 dischi tra platino e oro. Da segnalare infine, nel 1981, la sua partecipazione a Millemilioni, il primo esperimento di cooperazione televisiva internazionale: cinque speciali girati a Buenos Aires, Città del Messico, Londra, Roma e Mosca, per un totale di 10 milioni di telespettatori.

Da tutto ciò si capisce bene come, in questa ricognizione della Ninfa, l’età (in parte dovuta alla sua straordinaria longevità artistica) non conti affatto. Conta, ripeto, una sessualità libertaria e spensierata, panica, che oltretutto non le impediva di partecipare a programmi per bambini o a duettare con Topo Gigio, oltre che con Benigni e Renato Zero. Autoironica, dissacrante, dolcemente trasgressiva, autrice del neologismo “carrambata” e celebrata nel 2017 alla Fondazione Prada di Milano con un’opera di Francesco Vezzoli intitolata Fenomenologia di Raffaella Carrà: eccola qui, questa forza della natura.

 

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