- Si è sempre pensato che fossero solo storie di marinai, racconti di fantasia che si tramandavano di bocca in bocca.
- Chi ne aveva visto un tentacolo credeva che fosse un serpente marino, una creatura preistorica o persino una foca.
- Finché lui, stanco della pochezza cieca del genere umano, decise che era giunto il momento di mostrarsi.
Ottobre 1873, a Portugal Cove è un mattino caldo e tranquillo. O almeno, caldo per essere all’isola di Terranova, lassù al largo del Canada. E tranquillo se ci fermiamo qui, con la barchetta che scivola sul mare luccicante come una lumaca su un foglio di stagnola, e non guardiamo quel che sta per succedere. Perché là davanti c’è qualcosa che galleggia: una vecchia vela, pezzi di un relitto, un ammasso di reti strappate dalle onde? La barca si avvicina per vedere cos’è, ma quando ci arriva non lo capisce ancora. È grande, è molle e scuro, allungano un remo per toccarlo, e...
... e qui, a seconda di chi la racconta, la storia prende tre vie diverse. Per la prima, sulla barchetta c’è un uomo solo, un pescatore che si chiama Theophilus Piccot. Per la seconda, insieme a lui c’è il suo amico e collega Daniel Squires. Per la terza invece oggi c’è anche Tommy, il figlio dodicenne di Piccot. E quest’ultima versione è quella vera, o comunque la più bella, e quindi la scegliamo. Perché così possiamo sentire le parole ruvide dei due marinai consumati, che trattano il bimbo con la superiorità rocciosa di chi conosce il mare e i suoi pericoli, e a ogni colpo di remo schiaffa in faccia al pivello la sua ingenuità.
Bestemmie e schiaffi
È il metodo classico per insegnare i lavori pratici agli apprendisti: se vuoi imparare qualcosa, prima devi capire fino in fondo che sei un coglione e non sai fare nulla. Io avevo molti zii, quasi tutti facevano i giardinieri e tutti mi trattavano così. Un po’ come il maestro zen col discepolo che va da lui, e il maestro gli riempie la tazza di tè, poi prova a versarne altro ma non può perché la tazza è piena, e gli dice che allo stesso modo non può insegnargli niente, perché la sua mente è già piena di concetti e convinzioni.
Solo che nello zen lo svuotamento si realizza con la meditazione e l’eliminazione del superfluo, i miei zii preferivano insulti, bestemmie e schiaffi dietro la testa. Così tanti che dopo un’estate di lavoro insieme a loro mi sono scordato pure come mi chiamavo, però giuro che ho imparato il mestiere, a curare le piante e a potarle senza offenderle. Così come Tommy stava imparando ad affrontare i mille pericoli del mare, che i suoi due maestri dominavano con tutta la sbruffonaggine possibile.
Poi però, quel mattino di ottobre, arrivano alla cosa misteriosa nell’acqua, la toccano col remo, e dall’oceano schizzano mille lampi infernali. Enormi tentacoli scuri attaccano la barca, la avvolgono per risucchiarla in fondo all’oceano, e i due adulti paralizzati dal terrore restano dritti e duri come nella tomba dove stanno per finire. Tommy invece salta su, imbraccia l’ascia di bordo e comincia a colpire.
Alla cieca, ma funziona, riesce pure a staccare un paio di quelle braccia grosse come tronchi di pino, e insiste finché il mostro non molla la presa e si allontana, lasciandosi dietro vortici e spruzzi che anneriscono il mare.
Così è andata quel giorno, ed è una bellezza che sia stato Tommy a salvare i suoi maestri, ma ancor più bello e giusto è che la caccia millenaria al Kraken, partita nell’antichità e arrivata fin qui su una strada tutta curve, piena di vescovi e studiosi, professori e comandanti e imperatori, tra Platone e Aristotele, Plinio, Linneo, Darwin e gli scienziati più celebri della storia, la risolva un ragazzino di dodici anni che i più grandi hanno appena finito di prendere per il culo.
Tommy Piccot e il Kraken
Il suo nome è Tommy Piccot, anche se per qualcuno lui sulla barca non c’era, e anzi non esisteva nemmeno. Sono gli stessi che per millenni hanno spiegato come mai non esisteva questa creatura gigantesca, ma Tommy si pulisce l’inchiostro appiccicoso dal viso, imbraccia i remi e torna verso la costa, portando con sé due uomini ammutoliti e un tentacolo lungo sei metri, che finalmente dovrebbe bastare a chiudere il discorso. Fino a quel giorno invece nulla era servito.
Dopo la morte di Montfort in mezzo a una strada, il calamaro infuriato aveva schiaffato pezzi di verità in faccia agli uomini, facendosi avvistare più volte in giro per il mondo, quasi sempre da navi francesi come il suo povero amico. In Tasmania davanti agli occhi del giovane Peron, nell’Atlantico verso l’Equatore da Quoy e Gaimars, dalla Héoïne dell’ammiraglio Cécile e avanti così, fino all’incontro più noto e clamoroso, quello della Alecton e del capitano Bouyer che abbiamo visto all’inizio del nostro viaggio, quando prendevano a cannonate il Kraken mentre mia nonna chiacchierava con mio nonno e gli preparava le patate fritte anche se era morto. Ma la reazione ufficiale è sempre la stessa: favole da marinai, allucinazioni, isteria di gruppo. Storie, storie, solo storie.
La stessa fine di un altro avvistamento importante, che nel 1848 arriva addirittura sulle pagine del Times: al largo dell’Africa, navigando tra il Capo di Buona Speranza e l’Isola di Sant’Elena, l’equipaggio della Dedalus vede una creatura enorme che emerge dalle onde e si muove all’orizzonte per cinque minuti almeno.
Nel bagliore del sole gli sembra un serpente marino, che esce dall’acqua con la testa e il collo per un metro e mezzo, e sotto la superficie si intuisce un corpo lungo intorno ai 18 metri. È comprensibile: se da lontano avvisti il tentacolo di un calamaro gigante che guizza fuori dall’acqua, mentre il resto della creatura se ne sta invisibile là sotto, è facile prendere quel braccio per una bestia a sé, un grande serpente che si staglia all’orizzonte.
Il mare è così, la sua vita smisurata si muove laggiù, per conto suo, e a noi appare solo il pezzetto che succede sopra. È la famosa “punta dell’iceberg”, una montagna enorme che svetta nell’aria, ma sott’acqua a sorreggerla c’è una massa di ghiaccio dieci volte più grande. Talmente maestosa che, oltre a non vederla, tante volte non riusciamo nemmeno a pensarla, così ci andiamo a sbattere contro e coliamo a picco.
E così i lettori del Times e gli studiosi, pur di evitare l’assurdità di un serpente marino o di un tentacolo gigante, propongono mille spiegazioni alternative, che si spingono assai oltre nei vortici del delirio. Per alcuni infatti l’animale avvistato dalla Dedalus è semplicemente un’anguilla.
Un’anguilla pellicano, pesce abissale con una bocca che, spalancata, può essere lunga quanto il corpo. Nello specifico doveva trattarsi di un esemplare bello grosso, tre o quattro volte più dei suoi simili, che ci teneva a farsi ammirare e allora ha abbandonato il buio degli abissi dove vive, saltando sul pelo dell’acqua come le acciughe nei giorni di sole.
Altri invece concedono che la creatura fosse effettivamente un serpente, ma un normale serpente terrestre, il boa. Anche lui cresciuto troppo, tanto da sentirsi stretto nel folto delle foreste e trovare più confortevole la vastità dell’oceano. O magari si tratta di un esemplare sopravvissuto di plesiosauro, l’enorme creatura preistorica il cui fossile era stato scoperto qualche anno prima dalla nostra amica Mary Anning.
Queste e altre sono le opinioni dei lettori del Times, e va bene così, ognuno ha il diritto di dire quel che pensa, anche se quel che pensa è una scemenza. E poi le opinioni assurde sono preziose, ascoltarle è un divertimento che risolve certe sere fiacche, nei bar e nelle piazze del mondo.
Quando però sull’avvistamento della Dedalus si esprime sir Richard Owen, il celeberrimo biologo e paleontologo, il professore che sui dinosauri la sa così lunga da averla inventata lui, la parola “dinosauro”, ecco che ci si aspetta un po’ più di sostanza.
Quindi tacciamo rispettosi e lo ascoltiamo, mentre sir Owen ci spiega che la creatura vista all’orizzonte dall’equipaggio della Dedalus è, senza alcun dubbio, una foca. Dalla forma assai insolita, dalle dimensioni impressionanti e in un posto in cui non vive, sì, ma una foca. Non certo un serpente marino o il Kraken, quelle creature infatti non esistono proprio, altrimenti nei secoli le avremmo incontrate, e su qualche spiaggia si sarebbero trovati i loro enormi resti. Invece «una mole più sostanziosa di prove si potrebbe mettere insieme per dimostrare l’esistenza dei fantasmi», chiude il professore, e da qui si capisce che sir Owen non credeva nemmeno ai fantasmi, quindi è proprio il caso di lasciarlo perdere e guardare altrove.
Come fa il capitano della Dedalus, il signor McQuhae, che ha passato la vita in mare e a farsi trattare da bagnante suggestionato non ci sta. Risponde sdegnato: «Mia intenzione e desiderio era fornire agli eminenti naturalisti, come l’erudito Professore, dati precisi e accurati,» per poi congedarsi, auspicando una «occasione fortunata per conoscere più da vicino il Grande Sconosciuto,» che «nel caso in questione era tutt’altro che un fantasma».
Architeuthis Dux
“Il Grande Sconosciuto”, il capitano lo chiama così, ed è il suo nome perfetto. Grande come il fascino che ci attira verso quel che non conosciamo, e come la paura che ci fa. Grande come lo sconvolgimento che la sua semplice esistenza porterebbe al nostro mondo, piccolo e preciso e messo su in una vita di calcoli e prudenze. E allora, per difendere questo piccolo mondo e tenere lontano il Grande Sconosciuto, vanno benissimo anguille e boa, fossili e foche e tutto quel che c’era sull’Arca di Noè.
Solo che poi, un mattino di ottobre del 1873, arriva l’occasione fortunata che si augurava il capitano McQuhae. La porta in braccio il piccolo Tommy Piccot. E non è la freschezza del tentacolo a fare la differenza nel suo destino: con la giusta ostinazione si poteva ignorare pure questo finché non diventava poltiglia, l’eccitazione generale rientrava e avanti come sempre, tranquilli, puntuali, ciechi. No, il destino è come un coltello, può spalmarti la marmellata sul pane oppure tagliarti la gola, dipende dalle mani in cui lo metti.
E Tommy lo mette nelle mani di Moses Harvey. Che di quelle zone è il reverendo, e un grande appassionato di scienze naturali. Arrivato dall’Irlanda con la moglie Sarah e la mente aperta, il cuore apertissimo e la bocca sempre spalancata: le sue omelie sono assai temute perché non finiscono mai, così come le conferenze che organizza in giro, e quando proprio non può parlare allora riempie la stampa locale di articoli – un migliaio – su ogni minima questione di argomento naturalistico.
Figuriamoci adesso, che gli è arrivato questo tentacolo prodigioso dritto a casa, e Harvey si rende subito conto della sua importanza: «Ero in possesso di una delle più grandi curiosità del regno animale – il vero tentacolo di un pesce-mostro sino a quel momento mitico, sulla cui esistenza gli scienziati hanno discusso per secoli. So di aver avuto in mano la chiave di un grande mistero, e che ora un nuovo capitolo verrà aggiunto alla Storia Naturale».
Ma Harvey è un entusiasta sincero, non un egoista, desidera che questo nuovo capitolo venga scritto bene, e quindi affida la preziosa chiave del mistero al professor Emery Verrill. Che insegna zoologia a Yale, e al calamaro gigante crede profondamente.
Da anni studia i pochi frammenti a disposizione fino a consumarli, così come in Danimarca il professor Japetus Steenstrup, che ha deciso di dare un nome scientifico all’animale, Architeuthis Dux, basandosi solo su un becco, un pezzetto di tentacolo e un paio di ventose. Adesso invece, Verrill ha davanti un tentacolo quasi vivo, lungo sei metri.
E prima ancora di capire com’è fatto, deve trovare il modo di farlo entrare nel suo studio. Sposta la scrivania contro al muro, fa portare via l’armadio, ma non serve a nulla: quando finalmente c’è spazio abbastanza per il prezioso reperto, dal cielo si rovescia addosso a lui una tempesta di animali interi, enormi, incontenibili.
Perché la pazienza del calamaro è grande, è gigante come lui, ma è esaurita.
Piovono calamari
Dopo la fine tristissima del suo amico Montfort, ha provato a seminare qua e là prove sempre più chiare della sua esistenza, ma il mondo continuava a non guardare. È stato lì fermo e zitto a prendersi della leggenda, della bugia da marinai ubriaconi, dell’anguilla, del boa sperso nel mare e pure della foca in gita su un iceberg. Ma adesso il calamaro ha detto basta, è arrivato il suo momento. Ed essendo lui gigante, anche il suo momento lo è. Durerà dieci anni, dal 1871 al 1881, quando invece di gocce sparse di verità, sui mari intorno all’isola di Terranova si scatena una pioggia di prove, un uragano di calamari che inzuppa la crosta secca dello scetticismo, lo sommerge e lo affoga per sempre. In mezzo al mare, nelle reti e addosso alle coste, si riversa una quantità surreale di esemplari interi e a volte ancora vivi, pesanti più di una tonnellata e con tentacoli che superano i dieci metri. Già due anni prima dell’avventura di Tommy, lì vicino gli uomini della goletta B.D. Haskins hanno incrociato un calamaro morto, del peso di novecento chili per quasi otto metri, e nella stessa baia ne hanno trovato un altro arenato che ne misurava sedici. Ma erano resti ormai malmessi, e il reverendo Harvey non era stato informato, quindi sono finiti come esche per i pesci e cibo per i cani. E il mese dopo l’impresa di quel ragazzino, ancora a Portugal Cove, quattro pescatori tirano su una rete che è troppo pesante per essere piena di sardine, e soprattutto si dimena tanto da sfuggirgli dalle mani. Dentro c’è un calamaro enorme, che nella furia e nella lotta perde i tentacoli, portati a riva dai marinai increduli. Ma si stupiscono ancora di più quando il reverendo Harvey gli offre dieci dollari, se quella roba gliela consegnano a casa. Lì, Harvey li aiuta a trascinare il tutto fino in bagno, dove i tentacoli – lunghi otto metri e con una doppia fila di ventose dentate – riempiono la vasca e coprono tutto il pavimento. E non si sa che faccia ha fatto sua moglie Sarah rientrando a casa, ma il fotografo arrivato di corsa per immortalare il prodigio ci mette un po’ a farsi passare il tremore e scattare la storica foto.
Poi Harvey invia tutto al professor Verrill, che pubblica il suo studio su varie riviste scientifiche, incendiando l’attenzione del mondo intero. Per ringraziare il reverendo, battezza l’animale come Architeuthis Harveyi, e lui in estasi: «Ho fatto il possibile per accettare con modestia questi onori». Un altro parroco suo amico lo avverte però di stare attento, perché rischia di passare alla storia a cavallo di un pesce-demonio. Harvey sorride e lo ringrazia del consiglio, e intanto pensa che non importa quanti animali enormi possano nuotare là in fondo all’oceano misterioso, la bestia peggiore sarà sempre e comunque l’invidia.
E sorride pure quando gli scrive P.T. Barnum, il grande impresario del circo e degli spettacoli itineranti, che gli ordina «due esemplari di grossa taglia di quei pesci-demoni, senza badare a spese». Così, come se parlasse di pizze o prosciutti. Ed è comprensibile, per uno che ha già in magazzino l’uomo-scimmia, una donna di 161 anni e una con quattro gambe, la sirena delle Fiji e lo scheletro di Cristoforo Colombo. Ma Barnum non si rende conto di quanto siano rari questi animali, che in tanti secoli ci hanno concesso solo lampi occasionali di sé, per sparire subito come i fantasmi a cui non credeva il professor Owen. Eppure, in questi giorni a Terranova, così rari non sembrano mica. Un altro esemplare si arena a Bonavista Bay, uno sulla riva a Grand Bank e un altro ad Harbour Grace, poi a Hammer Cove e a Belle Isle. Alcuni sfuggono ad Harvey perché immediatamente fatti a pezzi e dati in pasto ai cani, ma il reverendo annota le date e le misure di ognuno, e riesce a portarsi via il calamaro spiaggiato a Catalina dopo una mareggiata, rimasto lì a dimenarsi per un paio di giorni. È l’esemplare intero più grande trovato fino a quel momento, è lungo tredici metri e gli occhi del reverendo non riescono a staccarsi da quelli della bestia, assai più grossi della sua testa. Ma non c’è tempo per stupirsi, un altro fa la stessa fine a Lance Cove, a una trentina di chilometri da lì, e un bestione di diciassette metri viene avvistato al largo di Thimble Tickle, uno a James’ Cove, un altro di nuovo a Portugal Cove e avanti così, senza respiro.
Dal 1861 al 1871, almeno una sessantina di calamari giganti finiscono come esche o buttati via, ma ventitré nuotano dritti dal professor Verrill, che studia e descrive con attenzione ogni singolo esemplare, mettendo da parte la sua vita privata come ha fatto coi mobili del suo laboratorio, per il decennio forsennato in cui si è rovesciata su Terranova questa tempesta di mostri giganti. E allora, non potendo più negarla, si è provato a spiegarla come una moria generale per qualche malattia o parassita, op pure – siccome succedeva quasi sempre in autunno – si trattava di esemplari sfiniti dopo l’accoppiamento. Si è parlato poi di una fluttuazione della corrente dal Labrador, di mutamenti climatici specifici di quella zona e altro ancora. Ma intanto, per dare il colpo di grazia alle truppe ostinate della ragione che già provavano a rialzare la testa, una tempesta simile si scatena dall’altra parte del mondo, intorno alla Nuova Zelanda, con bestie che raggiungono i diciassette metri. Così, per stroncare ogni scappatoia, ogni tentativo di fuga dalle cose come stanno. Il calamaro non era vittima dei parassiti, delle correnti o della stanchezza post-coito, era solo incredulo e stufo della secchezza, della pochezza cieca del genere umano.
E allora ha voluto travolgerci, spazzare via secoli di discorsi e lasciare qui sulla riva una sola, poderosa verità, evidente e inesorabile come un corpo sotto il sole che misura venti metri: il calamaro gigante, il Kraken, lo Sciu-Crak, il pesce-isola, il polpo colossale o come più ci piace chiamarlo, esiste. Eccolo lì. Grande come dicevano le leggende, anzi di più. Esiste, da sempre e per sempre. Anche quando siamo in fila alle Poste, sul binario ad aspettare il regionale in ritardo, alla riunione di condominio dove da mezz’ora si discute sulla sostituzione dello zoccoletto battiscopa in corridoio. Intanto, lui è là nel mare che nuota. Viviamo in un mondo pazzesco, folle, favoloso, dove il calamaro gigante, semplicemente, clamorosamente, è la realtà. Non si può più dire di no, dopo questa tempesta iniziata col tentacolo portato a casa dal piccolo Tommy Piccot. E se qualcuno ancora dice che quel mattino sulla barchetta Tommy non c’era, e che magari quel bimbo non è mai esistito davvero, ecco, allora non ha proprio capito niente.
Fabio Genovesi è autore del libro Il calamaro gigante, edito da Feltrinelli, in libreria dal 6 maggio
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