- Tutti noi proviamo vergogna, ogni giorno, per moltissime cose, come il nostro aspetto fisico o la nostra condizione sociale, ma passiamo un sacco di tempo a negare questa ferita
- Come spiega Frédéric Gros nel suo ultimo libro, la vergogna è un sentimento dalla storia travagliata, che può essere subita o inflitta, che fa parte dell’alfabeto della nostra esistenza ma che è anche una presa di coscienza
- Ed è soprattutto un sentimento che può portare a due esiti diversi: a un rassegnato ripiegamento su di sé oppure a una luminosa rabbia collettiva
Troppi fantasmi si aggirano per l’Europa in questo primo quarto di secolo, e tra questi vi è senza dubbio quello della vergogna. Tuttavia ogni fantasma è un’idra, come ci insegna H. P. Lovecraft, e non ha mai una, ma cento, mille facce. Se riflettessimo anche solo superficialmente sulla nostra condizione, per esempio, scopriremmo che sono molte le cause del nostro quotidiano vergognarci.
Proviamo vergogna per il nostro aspetto fisico, perché non è conforme ai modelli estetici che ci assediano; proviamo vergogna per la nostra condizione sociale, perché manchiamo di successo, di pubblica visibilità; infine proviamo vergogna perché vediamo costantemente diminuita la nostra umanità, ed è forse questa la declinazione più dolorosa. Trascorriamo buona parte del tempo della nostra esistenza a nascondere o a negare questa ferita. La vergogna per noi individui del XXI secolo è dunque un fantasma sistemico.
Abbiamo avuto appena il tempo di ritrovarci reduci da una pandemia globale (il fantasma della peste), e subito siamo diventati spettatori di una letale crisi economica (il fantasma della carestia). E questo è solo il retropalco, perché sul proscenio c’è il fantasma di una guerra il cui scandalo ci ha rigettato nello sconforto di quello che siamo: esistenze precarie.
Una storia complicata
D’altro canto è noto come la vergogna sia un sentimento dalla storia travagliata. Lo spiega bene il filosofo e romanziere francese Frédéric Gros nel suo saggio da poco tradotto in italiano da Raffaele Alberto Ventura, La vergogna è un sentimento rivoluzionario (Nottetempo).
Parafrasando: storicamente la vergogna si subisce e si infligge. Si subisce quando un atto o una condizione ci emarginano dal consesso al quale apparteniamo: la vergogna come sentimento di non-appartenenza. Si infligge quando questa alienazione è il frutto delle azioni di qualcun altro in un quadro che ci vede subalterni: la vergogna come genesi rivoluzionaria.
In tal senso vergogna e condizione umana non sono distinguibili. Per essa valgono i versi di John Donne: «La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, / perché io sono parte dell’umanità. / E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: / suona per te». Se la morte di un uomo ci riduce in quanto tutti appartenenti alla specie umana, la vergogna ci affratella perché riguarda proprio quella appartenenza.
L’istinto
Per questa ragione credo si possa parlare di vergogna ripensando alle bare che, ormai giorni fa, sono state esposte al PalaMilone di Crotone. Dentro c’erano le vittime di una strage. Un’imbarcazione di migranti a pochi metri dall’approdo che navigava su un mare ostile. Lo stesso mare che poco dopo ha sfasciato il legno e le vite sotto gli occhi afflitti di due pescatori, gli unici giunti a riva per prestare soccorso. Poi la ridondanza macabra degli alibi istituzionali, il rinnegamento della colpa e lo scempio dell’unica cosa da fare e non fatta, ovvero mettere in salvo vite umane. Un mancato soccorso che suona quasi come una soppressione sanguinosa dell’istinto (nella specie umana è istintivo andare in soccorso di qualcuno) in favore di regole ingiuste, di interpretazioni contorte.
A riva nei giorni successivi, e poi a Cutro – luogo della strage – davanti alla presenza del governo, la parola “vergogna” non è solo l’imperativo che in centinaia rivolgono ai propri rappresentanti nelle istituzioni, ma una livida constatazione, come a dire: «Io provo vergogna per me, per la mia salvezza comprata a discapito del più debole, per il sospetto di una mia responsabilità in quello che è accaduto e accade ogni giorno nel mondo».
Le gelide analisi, le valutazioni peregrine di un ministro che giudica avventato l’istinto di sopravvivenza di uomini e donne che scelgono di prendere il largo per allontanarsi da un’esistenza di morte, diminuiscono forse il nostro dolore, la percezione universale di una tragedia avvenuta? Certamente no. D’altra parte aumentano la nostra vergogna.
Il nostro alfabeto
C’è poi un passo nel saggio di Frédéric Gros che colpisce tra gli altri: «L’intera esistenza è diretta, fino all’ultimo secondo, dalla paura del ridicolo, attraverso meschine strategie per catturare i favori di persone che sono fondamentalmente indifferenti, perché occupate esse stesse dalla loro delirante ricerca dell’apparenza. Eppure va così: si passa la vita a chiedersi come vivere, amare, morire, parlare. Tentando di essere all’altezza. Ma all’altezza di chi e di cosa? Non lo sa nessuno».
Ecco, questa altezza è il baratro in cui tutti riversiamo gli occhi, ricambiati. È la vergogna primaria, quella che ci struttura in quanto appartenenti a un sistema sociale, culturale, addirittura politico. È il nostro alfabeto, la nostra misura, fino a quando un giorno quel sistema non ci mostra la sua vera vocazione: annullarci, annullare la nostra umanità.
«Mio padre ha voluto uccidere mia madre una domenica di giugno, nel primo pomeriggio», scriveva Annie Ernaux nell’incipit di La vergogna, additando così dalla prima riga l’evento fondativo della sua esistenza. La vita nella bottega dei genitori, ovvero l’esposizione continua di quella vita agli occhi degli abitanti del piccolo paese di Yvetot, impone di mostrare agli altri il meno possibile di sé: azioni ma soprattutto sentimenti. È la non-referibilità della propria esistenza l’altezza cui aspirare. Per questo «era normale provare vergogna», scrive ancora Ernaux, perché quel sentimento svolgeva la “salvifica” funzione di inibire l’autenticità di un individuo, sottraendolo al giudizio comune, fatto di astrazioni moralistiche e lontano anni luce dalla verità atroce che ciascuna famiglia cova in sé.
La vergogna declinata da Ernaux con il ricordo di quella tentata uccisione diventa così una sorta di sesto senso che riguarda la propria origine. Si è all’altezza se non si provano sentimenti, non pubblicamente, se non si esprimono giudizi né indignazione. La vergogna è guardiana di questo schema: contraddicendola si assapora qualcosa che assomiglia alla verità.
Prendere coscienza
L’attraversamento della vergogna come atto necessario a una presa di coscienza – lo ricorda lo stesso Gros – è anche il tema dominante della produzione di John M. Coetzee fino alla pubblicazione di Vergogna, titolo che è summa di tale percorso. Come per Ernaux, la scoperta di quel sentimento è un evento precoce, che marchia l’infanzia. Figlio di afrikaner, a otto anni Coetzee vive in presa diretta l’istituzione del regime di apartheid: è uno shock, un lampo di luce ustionante che inonda i reconditi della propria identità, fino a costringerlo a enumerare in un’immaginaria conta quante generazioni di razziatori e di colonizzatori hanno preceduto il suo arrivo in questo mondo.
È una vergogna pervasiva che si insinua nella percezione del proprio quotidiano, che avvelena il senso dell’amore provato per i propri genitori, «poiché interferisce la riprovazione sotterranea per quello che sono e quello che rappresentano». Ma è proprio il sentimento enucleato da Coetzee a esemplificare il passaggio verso una vergogna intesa come sentimento rivoluzionario.
«La vergogna del giusto si manifesta quando subisce la dolorosa prova della sua impotenza di fronte allo spettacolo della degradazione umana», scrive Gros, e questo vale nel Sudafrica di Coetzee così come a Cutro alcune settimane fa. Quando tale degradazione, in questi esatti termini, si riflette anche su di noi cessa di rappresentare uno strumento di oppressione indotta e diventa metro di lettura e dunque di critica.
«La vergogna è un sentimento rivoluzionario» è un titolo che il filosofo francese riprende direttamente da Marx, che aggiungeva: «Se davvero un’intera nazione si vergognasse, sarebbe come un leone che si china per spiccar il balzo».
Storia travagliata quella della vergogna, senza dubbio. «Oscillazione dolorosa tra tristezza e rabbia», sintetizza Gros, «conosce un duplice destino: il destino buio e freddo che sfigura, conducendo a una solitaria rassegnazione; il destino luminoso e bruciante che trasfigura, anima le rabbie collettive». E così vergognarsi, ribellarsi a tutto quanto non è umano è più che mai giusto.
La vergogna è un sentimento rivoluzionario è un libro di Frédéric Gros in uscita in Italia per Nottetempo (pp. 184, euro 16,50)
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