Gli ’80 negli Stati Uniti sono stati gli anni di Prince e Michael Jackson, del cambiamento del cinema hollywoodiano, ma anche di Jimmy Connors e John McEnroe. Tennisti di un ciclo che ha dominato in lungo e largo, a cui è seguito quello, forse più forte, sicuramente più vincente, di Pete Sampras e Andre Agassi.

Il tennis maschile americano è stato florido per due decenni, salvo subire una paurosa inversione di rotta in cui a spiccare è stata la controparte femminile che ha avuto nelle sorelle Williams e in Madison Keys le migliori interpreti. Andy Roddick è stato l’architrave su cui il movimento si è appoggiato nel nuovo millennio, ma dopo di lui gli statunitensi hanno dovuto aspettare quasi venti anni prima di vedere di nuovo uno dei loro beniamini competere realmente per uno Slam.

Con quattro donne nelle prime 20 del mondo, la risalita degli uomini (cinque top-20), una finalista (Jessica Pegula) e un finalista a Flushing Meadows dopo 15 anni, il tennis Usa può finalmente tornare a respirare.

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Il declino

A un certo punto della storia il tennis è stato davvero uno degli sport più gettonati nel paese: McEnroe, Connors e Chris Evert non avevano eguali. A fare da boia a questa popolarità una moltitudine di fattori, a partire dalla naturale fine del ciclo Sampras-Agassi, la crescita della competitività dei tennisti europei e la vertiginosa espansione di due mondi paralleli: il basket NBA e il football NFL.

Le rivalità, le sfide dei Chicago Bulls, la nascita di un mito mondiale come Michael Jordan da una parte e l’espansione delle franchigie, le imprese di Dan Marino, Jerry Rice e dei Dallas Cowboys dall’altra, hanno dirottato altrove marketing e grande pubblico, sottraendo al tennis gli atleti del futuro migliori.

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Gli americani hanno dimostrato di aver imparato dai loro errori e sono riusciti a rinascere riformando il loro sistema. Nell’allenamento prima di tutto. Se una volta la strategia consisteva nel formare prevalentemente tennisti con un servizio e un dritto esplosivi, attraverso la ripetizione ossessiva dei colpi, ora si dà più importanza alla corsa.

Una volta creata la base fisica e tecnica, allenatori e giocatori lavorano sui punti e sui diversi scenari di gioco preferendo quindi la varietà. I frutti attuali derivano inoltre dalla scelta delle accademie esplose negli anni ’70 e ’80: far allenare i ragazzi e le ragazze su tutte le superfici e non solo sul cemento, il terreno più diffuso oltreoceano, fornendo così una preparazione completa: «È sulla terra che i tennisti imparano a costruire i punti.

Qui si impara a mantenere l’equilibrio mentre si scivola, si diventa più intelligenti e si impara la disciplina, non solo a colpire più forte», ha scritto il sette volte campione Slam Mats Wilander su L’Équipe.

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Insomma, gli odierni americani sono una versione migliore dei loro predecessori, come Isner e Querrey. Sono amici e liberi dall’ossessione di diventare i numeri 1 perché, come raccontato dall’ex tennista Martin Blackman, «essere un buon giocatore inizia con la passione». Negli ultimi quattro anni i tesserati Usa sono cresciuti del 105% nella comunità latina e del 63% nella comunità afroamericana.

La federazione punta a 35 milioni di giocatori nel 2035, il 10% della popolazione. C’è un progetto per costruire altri 80.000 campi, arrivare a 350.000, spingersi in posti mai frequentati. Come Harlem, dove un’associazione fa giocare a tennis i bambini delle famiglie disagiate. Far innamorare i ragazzini è stato il cambiamento più incisivo.

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