Lo scrittore, morto oggi, non amava la tecnologia. Scriveva i suoi testi di seguito in un unico file Word e preferiva le lettere alle email: «Non riesco a nascondere la mia delusione e quella sensazione di solitudine che mi assale quando al posto di una calligrafia curata e di una busta di carta pregiata, mi ritrovo ad osservare un indirizzo stampato o un elenco di messaggi che si inseguono sullo schermo del computer»
Il pezzo che segue è uscito sul numero 10 di «Nuovi Argomenti» di maggio-agosto 2022. È dedicato allo scrittore Raffaele La Capria, scomparso oggi – lunedì 27 giugno – a 99 anni.
Ho conosciuto Raffaele La Capria nel 2005. Ero un suo fan. Sono andato a Napoli e ho scavalcato il cancello di Palazzo Donn’Anna per ritrovarmi nel suo “teatro naturale”, senza il quale probabilmente non esisterebbe niente di quanto La Capria ha dato alle stampe.
Di ritorno a Roma, ho scritto un lungo saggio su Ferito a morte per «Nuovi Argomenti». La Capria lo lesse e un mattino mi telefonò per complimentarsi e incoraggiarmi. Da quel giorno è iniziata un’amicizia che continua a posare su una solida venerazione: più passano gli anni più si comprende il valore di quel romanzo, Ferito a morte, senz’altro tra i più significativi scritti in Italia nella seconda metà del Novecento.
Documento 1
Ma voglio tralasciare la venerazione e soffermarmi sull’amicizia. Lo spunto me lo danno queste poche paginette che Raffaele ha riempito per rimpiangere la vecchia usanza di scrivere (e ricevere) lettere. Quando ho letto questo de profundis da parte di chi è «perfettamente consapevole dei profondi cambiamenti che sono avvenuti nel campo della comunicazione» – come scrive – ma che resta, per un fatto anche solo e semplicemente generazionale, piuttosto diffidente nei confronti delle nuove tecnologie, mi è tornato in mente quando un pomeriggio di una decina d’anni fa, dopo aver intonato con voce da crooner alcune canzoni napoletane a sua moglie Ilaria (che lo guardava, insieme a me e al gatto, con divertita ammirazione), Raffaele mi ha chiesto di dargli una mano a recuperare una cosa che aveva scritto al computer qualche mese prima.
«Non mi riesce di ritrovarla» mi ha detto, mentre mi metteva di fronte al suo MacBook bianco. Mi sono seduto, con lui dietro a sorvegliarmi, ho acceso il computer e dopo un attimo di stupore ho preso atto che sul desktop c’era una sola icona: l’icona di un documento Word chiamato Documento 1.
«Dove sono gli altri file?» gli ho domandato.
«Che vuoi dire?»
«Hai una cartella con i file dei tuoi pezzi da qualche parte?»
«È tutto lì dentro» mi ha risposto lui, indicandomi Documento 1 con un dito.
Una natura relativa
Così ho aperto Documento 1 e ho scoperto che per anni Raffaele ha scritto su quel file Word, di seguito, tutto quanto.
«Ma così ti credo che non trovi mai niente!» gli ho detto, mentre provavo in “cerca” con qualche parola-chiave.
Lui mi ha sorriso sollevando le spalle e ha commentato: «Tanto non era niente d’importante».
Una risposta, lieve e autoironica, in perfetto stile lacapriesco, che mi ha ricordato quella che Pierre Mendard dà nel racconto di Borges a chi gli chiede perché abbia deciso di scrivere un romanzo che coincida, «parola per parola e riga per riga» proprio ai «capitoli IX e XXXVIIII della prima parte del Don Chisciotte, e di un frammento del capitolo XXII: perché il Chisciotte – spiega Menard – «m’interessa profondamente, ma non mi sembra … come dire? … inevitabile».
Raffaele La Capria, con quel suo simpatico understatement, mi ha fatto capire una volta di più che la letteratura è per sua natura relativa e accessoria. E proprio per questo la amiamo.
Raffaele La Capria accusava la vita di avergli fatto perdere tempo per scrivereLettere
Pubblichiamo qui un estratto di una preziosa e inedita raccolta di corrispondenze epistolari che Raffaele La Capria ha tenuto nel corso dei decenni con i principali autori e intellettuali italiani, e che Mondadori pubblicherà a settembre col titolo Lettere 1951-2022.
«Di tanto in tanto, quando decido di lasciare il fidato tepore della mia casa e avventurarmi in una quotidianità che sembra essere solo un ricordo lontano, prima di oltrepassare la soglia che mi separa dal mio personale “non luogo”, non posso fare a meno di avvicinarmi alla cassetta della posta speranzoso di trovare una lettera. Non una lettera qualsiasi, ma una bella lettera, come quelle di una volta, scritta a mano.
Ovviamente sono perfettamente consapevole dei profondi cambiamenti che sono avvenuti nel campo della comunicazione, e che è molto più semplice e immediato inviare un’email. Ciononostante, non riesco a nascondere la mia delusione e quella sensazione di solitudine che mi assale quando al posto di una calligrafia curata e di una busta di carta pregiata, mi ritrovo ad osservare un indirizzo stampato o un elenco di messaggi che si inseguono sullo schermo del computer.
In quei momenti ripenso a Seneca e allo scambio epistolare con il suo amico, il poeta Lucilio, e in particolare a una lettera, quella in cui lo invita a dare giusto valore al suo tempo, perché solo il tempo è nostro.
Per secoli scrittori, artisti, filosofi hanno affidato alle lettere il racconto della propria vita e del proprio lavoro. Certo, ci sono state epoche in cui era facile che ti venisse voglia di scrivere una lettera, di racchiudere i tuoi sentimenti in una busta, di dare sfogo alla passione, alla disperazione, di offrire una finestra sul lato più nascosto del cuore umano. Epoche in cui non era poi così inusuale concedersi del tempo per stare con se stessi, riflettere, abbandonarsi alla meraviglia, innamorarsi. Il mondo in cui viviamo oggi è più distratto, più indaffarato, e anziché seguire l’insegnamento di Seneca e prendersi cura del proprio tempo, preferisce essere schiavo del futuro, e lasciarsi sfuggire il presente.
Perché scrivere una lettera richiede tempo, richiede solitudine, ma soprattutto il desiderio di condividere qualcosa di personale, la natura intima di chi scrive.
La poetessa Wislawa Szymborska ha scritto “Conta più chi ti conosce di chi conosci tu” ed io, memore di questo insegnamento, ogniqualvolta ho ricevuto una lettera l’ho tenuta da parte, perché ogni pensiero, ogni emozione, ogni scambio di opinioni rappresenta ancora oggi un’àncora di salvezza a cui aggrapparmi nell’attesa di quel sereno che rompe là da ponente quando passata è la tempesta».
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