Fabrizio si pone il compito (la missione) di vendicare le sconfitte del padre, Vittorio, diventando egli stesso motore di quel mondo di cartapesta da cui il padre è stato allontanato e tradito, quello di Mediaset e del berlusconismo
- Come ho inventato l’Italia di Fabrizio Corona (La nave di Teseo) è un libro a strati, oscillante tra vari generi. E’ un poema eroicomico; è un poliziesco d’azione con risse hard boiled; è il documento psichiatrico di una sindrome bipolare e borderline.
- Il protagonista Fabrizio Corona soffre di un amore non corrisposto per se stesso, altro che narcisismo. Nell’ombra misteriosa della nevrosi, in lui convivono la sensazione di essere stato un bambino poco amato e la venerazione per il padre
- Vittorio Corona, innovativo fondatore e direttore di periodici di moda e costume, è stato poi collaboratore di Mediaset fino al momento delle divergenze con Berlusconi al tempo della ‘discesa in campo’ di quest’ultimo.
Come ho inventato l’Italia di Fabrizio Corona (La nave di Teseo) è un libro a strati, oscillante tra vari generi. E’ un poema eroicomico, con il protagonista che agisce come un Matamoros o un Capitan Fracassa, sbruffoneggiando la sua megalomania d’ordinanza; è un romanzo picaresco e d’avventura, l’ultimo dei Mohicani di un berlusconismo al tramonto; è un poliziesco d’azione con risse hard boiled (“gocce di sangue e premolari finiscono sul pavé di corso Garibaldi”) o comiche alla Bud Spencer (“sputiamo candeline, ci rifiliamo cazzotti ripieni di pan di spagna”); è il documento psichiatrico di una sindrome bipolare e borderline; è un pamphlet contro la mala giustizia e contro un accanimento giudiziario degno di miglior causa.
Ma c’è una cosa che (fortunatamente) questo libro non è: non è una di quelle autobiografie compiacenti che spesso gli editori sollecitano a calciatori, cantanti, vip di vario calibro, influencer, conduttrici televisive.
Sempre troppo
Il protagonista è troppo spropositato, troppo ingombrante, troppo sgradevole. Esibizionista, maschilista, in preda a delirio d’onnipotenza, violento, bugiardo, imitatio Christi e scopate da record, non c’è accusa o contraddizione che lui stesso non si rinfacci per primo; cede agli altri la parola solo quando li chiama brevemente al telefono, in diretta mentre scrive, per confermare o smentire qualche dettaglio – per il resto occupa tutta la scena, adrenalinico, iperattivo, impossibile da zittire.
“Io sono Dio”, l’incipit provocatorio (mi ha ricordato il titolo dell’autobiografia di Carmelo Bene, Sono apparso alla Madonna) sembra invitare a una facile alternanza tra dio e diavolo, ma per capire il libro mi sembra più utile ricordare la figura del Demiurgo come la immaginavano gli gnostici: mentre Dio si era ritirato nel proprio assoluto, il Demiurgo cercò di imitare la creazione con quello che era avanzato ma riuscì solo a impapocchiare una parodia del mondo, maldestra e approssimativa. Corona è il dio di una realtà ridotta a reality dove il denaro, il successo e la visibilità sono gli unici valori, dove il sesso è uno strumento di scalata sociale, dove la raccomandazione e il ricatto sono moneta corrente.
La domanda è quanto, questo immaginario regno di Corona, assomigli all’Italia empirica delle post-ideologie, all’Italia-spettacolo delle disuguaglianze e della falsa uguaglianza dei social, all’Italia della ‘riccanza’ in momentanea quarantena da covid. Ma il libro non è nemmeno uno spaccato sociologico, come Corona non è mai stato “il re dei paparazzi”; l’autobiografia è concepita come un ordigno che deve far esplodere le cose stesse che racconta.
La visibilità e il successo, l’euforia di sé, il potere dei ras del gossip, la sarabanda delle modelle e dei ‘modellari’, i nomi dei famosi e dei meno famosi, tutto si riduce a niente perché il protagonista manda ogni storia fuori giri; resta il denaro, a galleggiare come un relitto inutile, simbolo anonimo e insensato di qualcosa che è governato altrove.
L’ombra della nevrosi
Il protagonista Fabrizio Corona soffre di un amore non corrisposto per se stesso, altro che narcisismo. Nell’ombra misteriosa della nevrosi, in lui convivono la sensazione di essere stato un bambino poco amato e la venerazione per il padre, Vittorio, innovativo fondatore e direttore di periodici di moda e costume, poi collaboratore di Mediaset fino al momento delle divergenze con Berlusconi al tempo della ‘discesa in campo’ di quest’ultimo.
Qui, sotterraneamente, è la chiave principale del libro: Fabrizio si pone il compito (la missione) di vendicare le sconfitte del padre, Vittorio ma non vittorioso, diventando egli stesso motore di quel mondo di cartapesta da cui il padre è stato allontanato e tradito.
Ne vuole penetrare tutti i meccanismi per distruggerli dall’interno, ma è ormai talmente impastato di quei meccanismi che distruggerli vuol dire distruggere se stesso. Amando il mondo che odia, e viceversa.
Da qui il cinismo autolesionistico, l’ossimoro elevato a giustificazione, il piacere di sputtanare sputtanandosi. Chi leggerà questo libro per cercarvi risposte da Chi o Pomeriggio cinque (che è accaduto veramente con Lele Mora ? chi ha ragione tra Nina Moric e Luigi Mario Favoloso ?) sbaglierà il bersaglio, non capirà che il cuore del libro è nell’asse paterno, tra un Vittorio che salva dal cielo e un figlio Carlos da proteggere.
Il libro trasuda di un dolore autentico espresso senza vittimismo, anzi con un ribaldo senso dell’humor e una sprezzatura d’arroganza (“il dolore mi è scappato come una bestemmia quando ti cade il cellulare”).
Raffinatezza e sciatteria
Da questa bella comparazione può partire un rapido discorso stilistico sulla scrittura del testo. Mi pare sia innegabile un certo squilibrio tra la raffinatezza di alcune definizioni e figure retoriche (la “amoralità soffice e affamata” di Flavia Vento, le veline schedine letterine come “una fauna di diminutivi in perizoma”, o un incontro erotico che provoca “un brivido di panna e soddisfazione”), tra questa raffinatezza verbale, dicevo, e la sciatteria di altre parti, con una lingua da giornalismo di bassa lega (“la serata più gettonata”) e veri e propri strafalcioni (“trans agonistica” invece di “trance”, “abbruttito” anziché “abbrutito”, “gag bang” al posto di “gang bang”, “un’ideale” con l’apostrofo) – va bene la fretta, va bene l’insofferenza per le regole borghesi, ma se anche la grammatica dev’essere aggredita allora bisognerebbe programmarlo sistematicamente. L’anarchia non dovrebbe impedire di fare le cose con cura, altrimenti si manca l’obiettivo.
Nessuno dovrebbe chiedere a Fabrizio Corona di “diventare un esempio positivo” o di “mettere la testa a posto” o peggio di "darsi una regolata”, ma credo lo si potrebbe convincere ad assumersi la responsabilità dei propri talenti: che non necessariamente sono soltanto l’intelligenza e le indubbie capacità imprenditoriali. La scrittura è una bestia difficile.
Nel sottofinale, per esempio, c’è un finto delirio fantascientifico (una specie di Ammaniti annacquato per le masse) che non serve a niente, il vero delirio sta altrove. E la lunga parte dei processi alla fine stanca un po’; anche la letteratura è un sistema ingiusto, in cui l’interesse dal punto di vista del lettore non dipende dall’importanza che un tema ha avuto per l’autore.
Il finale vuol essere una lode della normalità: «Se solo avessero pronunciato un ‘bravo’ in più per la mia prima pedalata senza ruotine, se solo avessi avuto venti o venticinque carezze in più, magari trenta, magari cento baci di quelli che poi ti smanacci via disgustato la saliva dei genitori… forse allora godrei di quella tiepida forma di infelicità riservata a chi accende un mutuo per allevare marmocchi in un trilocale di periferia e colleziona nella penombra i punti del Carrefour».
C’è una prosa di Baudelaire in cui chiede al Signore di dargli le prove «che non sono inferiore a coloro che disprezzo».
Il paradosso logico è la cifra di una normalità impossibile. In letteratura l’identificazione non dipende dal giudizio morale, e il protagonista del libro di Corona è un personaggio con cui, letterariamente, ci si identifica. Quindi, con tutti i suoi difetti, la scrittura funziona.
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