- Maugham ha composto un’opera vastissima segnata da una caratteristica che risalta sulla altre: nei suoi racconti e romanzi migliori c’è sempre una voce narrante che in qualche modo rimanda allo spirito dell’autore.
- Il suo problema era che vendeva. Non solo romanzi. Le sue commedie, che a Londra si erano rappresentate già a inizio secolo, riscuotevano un clamoroso successo di pubblico.
- Maugham è un grande sarto della scrittura: la forma è tutto, il resto… Be’, il resto è la vita. Seguiamo il lungo arco cronologico della sua esistenza, da quando entra alla scuola di medicina a Londra nel 1892 fino al 1944, anno in cui compie settant’anni.
Racconta Robin Maugham, il nipote di W.S. Maugham, che «lo zio Willie», come lo chiamava lui, un giorno si mise a fare le pulci ai vangeli. Già anziano, nella sua villa della Costa Azzurra, circondato da una decina di persone di servizio e la Rolls-Royce parcheggiata innanzi al portone in stile mediterraneo orientale, il romanziere si dedicava allo studio delle sacre scritture. Però ne ravvisava difetti dal punto di vista letterario. Un giorno saltò su a dire: «Forse Gesù era ancora in vita quando fu tolto dalla croce. Vedi, questa è un’idea interessante». Ovvero: lo sguardo del romanziere è sempre acceso, non c’è riposo. Se poi il romanziere è William Somerset Maugham, l’autore de Il filo del rasoio, dei Racconti dei mari del sud, de Il velo dipinto, di Pioggia e altri celebri romanzi spesso diventati anche film, il meccanismo creativo è necessariamente insonne, perché Maugham ha composto un’opera vastissima segnata da una caratteristica che risalta sulla altre: nei suoi racconti e romanzi migliori c’è sempre una voce narrante che in qualche modo rimanda allo spirito dell’autore. Un testimone di eventi, di fatti, del destino di persone, cosmopolita com’ era lui, colto come lui, amante delle belle case, dell’arte, degli arredi com’era lui, che quasi casualmente incrocia questi destini e, nonostante ne registri solo dei pezzi, è in grado di ricostruirne l’intera esistenza.
Snobbato dalla critica
Con due caratteristiche stilistiche che predominano: l’estrema naturalezza di tono (che, dal punto di vista letterario, è tutt’altro che naturale, anzi è una costruzione difficilissima); e una penetrazione psicologica strabiliante, anch’essa naturale: vale a dire che i caratteri dei personaggi sbalzano senza artificio, senza didascalismo da ciò che la voce illumina di loro. Da queste due qualità sommate risulta ciò che fa di Maugham uno degli scrittori più fortunati del Novecento. La sua leggibilità era tale che, pur essendo autore del livello di un Francis Scott Fitzgerald o di una Virginia Woolf, la critica lo trattava con sufficienza. Il suo problema era che vendeva. Non solo romanzi. Le sue commedie, che a Londra si erano rappresentate già a inizio secolo, riscuotevano un clamoroso successo di pubblico. Tanto che, pur giovane, lo si era liquidato come un campione del box-office e nulla più. E qui la critica non aveva tutti i torti: perché Maugham era un eccellente commediografo di genere leggero, attento alle mode – giovane laureato in medicina aveva mollato l’ospedale e si era fiondato a Parigi nella classica soffitta a fare la bohème. Voleva soprattutto vivere. Non aveva, per intenderci, la statura dei suoi quasi coetanei George Bernard Shaw e Noël Coward. Ma la ragione è semplice: sotto la brace del commediografo abile covava il romanziere geniale, sebbene il suo debutto, a 23 anni, fosse avvenuto proprio con un romanzo, Liza di Lambeth.
Ma il teatro, a ben vedere, non poteva restituire il vero talento di Maugham, che è propriamente quello del narratore. Lo scrittore francese Eric-Emmanuel Schmitt, l’autore di Signor Ibrahim e i fiori del corano, il quale è sia commediografo che romanziere, ha formulato un’interessante differenza tra le due tecniche. «La scrittura del teatro ignora il tempo, la durata. Non c’è descrizione del mondo, ci sono dei personaggi. Il tempo drammatico è la cristallizzazione del tempo» mi ha spiegato durante una conversazione incentrata sul suo lavoro: «Quella romanzesca invece è una scrittura dove esiste lo spessore del tempo che passa. E c’è la descrizione del mondo. Ho cominciato a scrivere romanzi proprio perché avevo delle storie da raccontare che si sviluppavano nel tempo. La sintesi è il racconto, che contiene l’economia, l’essenziale del teatro e lo spessore del tempo e del reale, che vengono dal romanzo». Non è un caso, di fatto, che Maugham sia anche un magistrale autore di racconti: perché qui, per dirla con Schmitt, fa una sintesi delle due tecniche.
Il taccuino
Nel Taccuino di uno scrittore, che Adelphi pubblica per la prima volta in italiano tradotto da Gianni Pannofino, Maugham parla dell’arte del romanzo. Ragiona sul suo mestiere.
All’inizio del volume, a modi avvertenza, l’autore informa di aver letto il Journal (il diario) di Jules Renard, il famosissimo autore di Pel di carota. Maugham dice di non amare il Renard scrittore e nemmeno il commediografo. «Renard era a tal punto privo di capacità creative che viene da domandarsi come mai sia diventato scrittore», scrive: «Non possedeva nemmeno l’inventiva necessaria a rimarcare il significato di un episodio e a conferire una forma alle sue acute osservazioni». Per contro, rivela che il journal gli era piaciuto moltissimo: «È uno dei piccoli capolavori della letteratura francese», afferma, «una meravigliosa lettura, quanto mai divertente: un testo fine e arguto, in molti casi saggio». Fu quella lettura ad ispirargli l’idea di mettere insieme i suoi taccuini (una scelta presa da 15 volumi di roba) avvertendo però il lettore: «Dico subito che queste mie note non sono neanche lontanamente interessanti quanto quelle di Renard. Sono molto più frammentarie, ci sono stati anni in cui non ho praticamente annotato alcunché. Inoltre, non si presentano come un diario, non ho mai scritto nulla sui miei incontri con persone interessanti o famose. E mi pento di non averlo fatto». Niente paura, nel volumetto intitolato Lo spirito errabondo, sempre Adelphi, c’è un capitolo intitolato Alcuni romanzieri che ho conosciuto dove Maugham traccia sapidi ritratti di scrittori, attori e bel mondo, da Henry James a H.G. Wells: qui troviamo quel suo sguardo se vogliamo un po’ cinico (o disincantato?), quel suo pessimismo inguaribile che forse gli veniva dal fatto di aver perso, bambino, padre e madre in pochi mesi e di essere cresciuto con uno zio religioso. «Mi rivolse alcune parole cortesi», ricorda di Henry James a un ricevimento, «ma io ebbi l’impressione che avessero poco significato».
Un sarto della scrittura
Come dicevamo, nel Taccuino trovano spazio riflessioni sul proprio lavoro e su quello dei suoi favoriti, come per esempio il Balzac di Il cugino Pons, quel goloso insaziabile, cronico, che ogni sera scrocca la cena da qualcuno, che dovrebbe stare antipatico al lettore. E no: Maugham ci illustra la tecnica con cui Balzac lo rende un personaggio a cui il lettore si lega. Detesta gli autori pedanti, scrive: «Lo scrittore dovrebbe avere una sua varia e particolare cultura, ma probabilmente sbaglia quando la infila nelle proprie opere. È un segno di ingenuità parlare in un romanzo delle proprie opinioni sulla teoria dell’evoluzione, delle sonate di Beethoven o sul Capitale di Karl Marx». E ancora: «Secondo me, in un racconto bisogna fare in modo di non frazionare l’interesse del lettore; Cechov, per quanto disordinati appaiano a volte i suoi racconti, ha sempre badato a non commettere quell’errore. In un racconto, come in un’opera teatrale, infatti, occorre stabilire quale sia il punto centrale per poi attenervisi a ogni costo».
Maugham è un grande sarto della scrittura: la forma è tutto, il resto… Be’, il resto è la vita. Seguiamo il lungo arco cronologico della sua esistenza, da quando entra alla scuola di medicina a Londra nel 1892 fino al 1944, anno in cui compie settant’anni. Eccolo che vive come un nababbo a Cap Ferrat, si dice ormai pensionato – parla dei libri che non ha più scritto, anche se poi ne scriverà altri, morirà a 91anni – e si abbandona a riflessioni amare sul tempo che è passato, sulla fama che è effimera. Il nipote Robin ci aveva già raccontato in Conversazioni con zio Willie della depressione dello scrittore, di una vecchiaia non felice, a dispetto della Rolls e dei camerieri in livrea. Non è altro che il terribile sguardo al passato della senilità, malattia che non risparmia quasi nessuno («il pessimista», scrive a un certo punto, «rifiuta la realtà»). Il Taccuino ci racconta di un uomo che ha girato il mondo, Cina, Russia, Mari del Sud, Francia (dove era nato all’ambasciata inglese, di cui il padre era avvocato). Ci racconta quelli che a lui paiono solo frammenti di memoria: la vedova del giudice in India, l’ufficiale in congedo ritiratosi a Ceylon, il segretario goffo del club in Malesia, padre e figlio che comandavano navi nel porto di Rangoon (oggi Yangon), e la casa di legno sulla spiaggia di Tahiti dove tre porte erano state dipinte da Gauguin per ringraziare dell’ospitalità e Maugham, con un minimo di contrattazione, riesce a portarsene via una. Quando leggiamo La luna e sei soldi, il capolavoro ispirato alla vita del pittore, pensiamo a quella porta di legno: il miracolo e l’assurdo della vita di uno scrittore.
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