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Sarà l’ansia che spinge a riaggiornarsi, riaggiustarsi, nella speranza (spesso vana) di migliorarsi. Lo si è sempre fatto pure al cinema, solo che adesso cambia il formato. Una volta i registi che rifacevano sé stessi non avevano che i film.
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Insomma, lo si è sempre fatto e lo si fa ancora, solo che cambiano le misure e i contenitori. Dopo l’epoca cosiddetta della Peak Tv, siamo piombati nella Too Much Tv. Troppe serie, troppe uscite, non ci stanno più dietro nemmeno gli addetti ai lavori.
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Dunque, quei pochi con la sindrome arbasinica che vogliono riscriversi, ripensarsi, riaggiornarsi oggi hanno lo strumento delle serie, fortunatissimo e rischiosissimo insieme. E però, almeno stando agli esempi più recenti, forse più adatto per l’auto-remake.
Sarà colpa o merito della “sindrome di Fratelli d’Italia” (inteso come romanzo di Alberto Arbasino e non come partito di Giorgia Meloni), che porta a riscrivere sé stessi finché non si trova la quadra perfetta – anche quando perfetta lo era già. Sarà l’ansia che spinge a riaggiornarsi, riaggiustarsi, nella speranza (spesso vana) di migliorarsi. Un misto di incontentabilità e tracotanza che dà esiti a volte notevoli, a volte cringe, come si dice oggi.
Lo si è sempre fatto pure al cinema, solo che adesso cambia il formato. Una volta i registi che rifacevano sé stessi non avevano che i film: il “padre” Cecil B. DeMille coi suoi Dieci comandamenti (versione 1923 e versione 1956: entrambe un colosso, secondo gli standard del rispettivo tempo); Alfred Hitchcock con L’uomo che sapeva troppo (1934 e 1956: ma è il secondo, con l’urlo di Doris Day alla Royal Albert Hall, ad essere oggi considerato il vero classico).
Pure in epoca recente, la smania di rifarsi non è passata: Michael Mann ha ripensato il suo L.A. Takedown del 1989 (da noi titolato Sei solo, agente Vincent) pochi anni dopo con Heat - La sfida (1995), e non c’è bisogno di dire quale dei due ha superato la prova del tempo; Michael Haneke ha replicato il culto Funny Games (1997) scena per scena dieci anni dopo (edizione starring Tim Roth e Naomi Watts), ma l’esercizio non ha funzionato granché; idem per quanto riguarda il caso forse più recente fra gli auteur amati dai festival, e cioè il cileno Sebastián Lelio con il bel Gloria del 2013, diventato cinque anni più tardi l’insipido Gloria Bell con protagonista Julianne Moore.
Insomma, lo si è sempre fatto e lo si fa ancora, solo che – dicevo – cambiano le misure e i contenitori. Dopo l’epoca cosiddetta della Peak Tv, siamo piombati in quella che di recente Variety ha definito, ironicamente ma non troppo, la Too Much Tv. Troppe serie, troppe uscite, non ci stanno più dietro nemmeno gli addetti ai lavori.
Però i soldi per il cinema d’autore, da intendersi come concetto largo che trascende le dimensioni degli schermi su cui finisce, stanno appunto nelle produzioni destinate a televisione a pagamento e piattaforme varie.
Prendete Netflix. Sì, potremo pure continuare a sospirare «Non c’è niente da vedere» ogni volta che schiacciamo l’icona N. Ma poi arriva Venezia 79 con una tripletta d’autore prodotta dalla Casa di Sarandos che le major – ma pure gli studi indipendenti – oggi si sognano: White Noise di Noah Baumbach da Don DeLillo, film d’apertura della prossima Mostra; l’attesissimo Blonde di Andrew Dominik, basato sul romanzo-monstre dedicato a Marilyn Monroe da Joyce Carol Oates; e Bardo, False Chronicle of a Handful of Truths del doppio Oscar Alejandro González Iñárritu.
Meta
Dunque, quei pochi con la sindrome arbasinica che vogliono riscriversi, ripensarsi, riaggiornarsi oggi hanno lo strumento delle serie, fortunatissimo e rischiosissimo insieme. E però, almeno stando agli esempi più recenti, forse più adatto per l’auto-remake.
L’ultimo ad aver annunciato una serie “presso sé stesso” è Giuseppe Tornatore, che firmerà un Nuovo Cinema Paradiso ancora più nuovo, stessa storia del suo film premio Oscar ma con nuove strade narrative. Arriva da noi su Sky e Now il 3 agosto (data infelicissima) Irma Vep, con cui l’idolo dei cinéphiles Olivier Assayas riprende e allarga il suo film omonimo del 1996. È una delle cose più belle viste a Cannes 2022, e anche uno dei modi finora più riusciti di riprendere la propria opera e darle una veste e un senso nuovi.
Quando non si sa cosa dire, si dice “meta”: ecco, Irma Vep è un’opera molto “meta”, meta-cinematografica e meta-televisiva, perché per tutto il tempo ragiona a voce alta su quello che è oggi la produzione audiovisiva, sullo strapotere dello streaming («Oggi si fanno solo contenuti che seguono l’algoritmo»), sull’eterno scontro tra processo creativo e follow the money, perché alla fine senza finanziamenti non si fa niente (qui, tra gli investitori della serie che il finto/vero Assayas sta girando, c’è un imprenditore ramo cosmetici che vuole la protagonista – interpretata da Alicia Vikander – come testimonial).
Irma Vep è un’operazione meta-cinematografica perché riflette sul cinema e la sua evoluzione: l’ispirazione, che poi è la stessa del film anni Novanta, è il serial ante litteram I vampiri, diretto da Louis Feuillade nel 1915. Ed è anche un’operazione meta-biografica, anzi psicanalitica, forse direttamente autofiction, come si dice sempre oggi.
Il regista della “serie nella serie” è, dicevo, lo stesso Assayas, seppur interpretato da Vincent Macaigne, attore portentoso. Dalla psicanalista ci va per davvero, e le racconta che sta girando questo nuovo Irma Vep per risolvere – forse – la storia irrisolta con la ex asiatica protagonista del film precedente. Più vero del vero: l’Irma Vep uscito nel 1996 aveva come lead Maggie Cheung, grandissima star di Hong Kong nonché, all’epoca, compagna di Assayas. Forse questo basta a provare perché, a volte, c’è bisogno di una serie: per avere più tempo – con sé stessi, prima ancora che con gli spettatori – per spiegare, risistemare, pareggiare conti, amori, storie assortite rimaste in sospeso.
Psicanalisi
Campione di psicanalisi è il sempre adorato Marco Bellocchio, che con la serie Esterno notte – anch’essa all’ultimo Cannes, poi uscita al cinema come fosse un film in due parti (perché, dobbiamo ribadirlo?, ormai non fa nessuna differenza) e in onda su Rai 1 in autunno – riprende il discorso aperto e interrotto nel film Buongiorno, notte del 2003. E cioè il sequestro Moro, che però è, appunto, la psicanalisi di una nazione, il nostro spartiacque politico e sociale, il sempre rimosso che sempre ritorna.
Ne esce un’opera monumentale che, è vero, aveva bisogno di più spazio, di più tempo, e che nella collocazione seriale trova la sua compiutezza. C’è una puntata intera dedicata solo a Cossiga “il matto” – magnifico Fausto Russo Alesi – e un’altra sul pasticciatissimo riscatto operato dal Vaticano (con il “Papa” Toni Servillo: ma a rubare la scena è il prete di provincia Paolo Pierobon). E via così, ad allargare, aggiungere dettagli veri o immaginifici – il leader della Democrazia Cristiana illustrato come un Cristo lungo la Via Crucis – dimostrare che le sei ore in totale, a differenza dei 106 minuti del film di partenza, servivano eccome.
Serialità
Le serie, dunque, sembrano servire soprattutto ai registi – di cinema – che vi si cimentano. Appunto per psicanalizzare sé stessi e la propria opera, per sfruttare le nuove possibilità (nuove no, ma ecco: adesso totalmente legittimate) che la narrazione televisiva mette a disposizione.
Quattro anni fa Gabriele Muccino fa aveva girato un film a suo modo perfetto: A casa tutti bene. L’ha fatto diventare, a fine 2021, una serie per Sky che ritrova il soggetto originale per poi stressarlo e stravolgerlo ancora di più; e che, nel panorama seriale nostrano, diventa un altro prodotto a suo modo perfetto. C’è la componente data dal nuovo mezzo – il ritmo anche musicale alla Succession, il fil rouge che va dalle parti del thriller – ma di base c’è Muccino in purezza, e tutto quello che ci si aspetta da lui, allargato, amplificato, esaltato in tutti i sensi.
Il discorso anche psicanalitico sulla famiglia, sui suoi segreti e le sue bugie, sul sangue che lega e il risentimento che allontana, sulle scelte dei singoli e le costrizioni del gruppo, insomma tutto il cinema del regista romano concentrato, con molto più tempo anche per comprenderlo. Muccino sta al momento girando la seconda stagione, a riprova del fatto che, una volta che ci si serializza, può risultare assai difficile tornare indietro.
C’è una battuta molto “meta” in Irma Vep che sembra chiudere tutto il discorso. Il finto/vero Assayas dice: «Pensavo che un film di otto ore (così definisce la sua serie, nda) mi avrebbe portato alla redenzione». Forse sta tutto qui. Nella vana speranza che ci sia sempre un mezzo nuovo, una nuova occasione per spiegarsi meglio.
L’importante – parlo da spettatore e da addetto ai lavori sempre più annoiato – è che lasciate il-cinema-che-si-fa-serie a chi l’ha pensato al principio. Perché, a fronte di un Fargo che tutto sommato funziona anche in tv, e anche senza i Coen a dirigere, ci sarà sempre un nuovo Scene da un matrimonio a farci rimpiangere chi, per tentare di comprendere ed esorcizzare i propri fantasmi, aveva capito prima di tutti che una serie in sei puntate era l’unica strada possibile.
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