Lawrence Osborne, autore di nove romanzi, in Italia tutti editi da Adelphi, ha sempre fatto dei luoghi di ambientazione i veri protagonisti, e in Java Road (Adelphi, 2023) la personaggia principale è Hong Kong. La Hong Kong degli scontri del 2019, la Hong Kong che ha in sé due volti: quella degli ultra-ricchi, quella di chi lotta per la vita.

A muoversi tra le sue vie, c’è Adrian, giornalista inglese di mezz’età, che, stanco e disinteressato di ciò che lo circonda, scopre una nuova spinta nell’indagare la relazione tra l’amico Jimmy, miliardario, e una giovane studentessa, manifestante convinta.

Osborne, so che vive a Bangkok dal 2012. Perché proprio la Thailandia?
Mi è sempre piaciuta: quando ho lasciato gli Stati Uniti la scelta è stata facile.

Perché è andato via da New York?
Ho vissuto lì per 22 anni, alla fine la odiavo.

L’aspetto peggiore?
È davvero costosa. Spendevo tutti i miei soldi per l’affitto di un appartamento grande la metà di quello in cui vivo oggi, e io i miei soldi voglio godermeli.

Quel che le piace di Bangkok, invece?
È una città caotica, ma non è disordinata: è viva. Qui puoi stare da solo senza soffrire la solitudine. Quando mi va, salgo sul mio motorino e giro per le vie, mangio in un ristorante senza per forza prenotare con settimane di anticipo. Vivere qui è facile.

Dunque non c’è niente che non le piace?
L’inquinamento, l’aria è irrespirabile, certi giorni fai anche difficoltà a vedere dall’altra parte della strada, da gennaio ad aprile devi indossare la mascherina. Ma la perfezione non è di questo mondo - e poi sono sopravvissuto finora: ce la farò.

Lei negli anni ha girato il mondo: lavorando per quotidiani e riviste, il New York Times, il New Yorker, l’Independent, ha vissuto in tanti posti. Torniamo alle origini, però: l’infanzia?
Sono nato a Londra, accanto al castello dei Windsor - gli amici da ragazzo mi prendevano in giro: mi chiamavano il reale. Ma la mia famiglia si è trasferita presto in una piccola città del Sussex, dove sono cresciuto. Posto borghese e pudico: cliché noioso. A scuola non ero bravo, ed ero pure un ragazzo agitato, venivo spesso punito, cacciato e a Cambridge, poi, è arrivato il fallimento. Mi ci sono iscritto per studiare la Grecia antica, ma a interessarmi erano le feste, così mi sono spostato ad Harvard, che mi pareva meno dura, altro fallimento: le lezioni iniziavano alle otto del mattino e siamo onesti, nessuno può studiare greco antico a quell’ora - specie se la notte prima hai fatto tardi a una festa.

Quindi?
Quindi ho mollato.

È tornato a casa dai suoi?
Neanche per sogno. Senza dire niente a nessuno, ho preso un volo per Parigi.

Perché?
Mi andava. Servono altre ragioni per fare le cose?

Lì cos’è successo?
Il primo posto in cui sono andato è stata una chiesa dove ho visto un annuncio: un prete cercava un ragazzo anglofono che gli insegnasse la lingua, in cambio offriva vitto e alloggio nel suo stesso appartamento. Ho preso il posto, ma non mi ci è voluto molto per capire che il prete era gay e non voleva imparare sul serio l’inglese, ma fare sesso con me.

Com’è finita?
Lui non ha imparato una parola d’inglese, ma io ho imparato il francese. Me ne sono andato dopo sei mesi, e ho iniziato a lavorare come giornalista, pochi anni dopo mi sono trasferito a New York.

Parla ancora il francese?
Perfettamente. Come l’italiano.

Perché l’italiano?
Sono molto legato al vostro paese. Quand’ero ragazzo, passavo lunghi periodi in Italia con mia madre. Poi, sa, Roberto Calasso è stato un mio grande amico, a lui devo tanto.

Cosa intende?
Nel 2009 Adelphi, quindi Calasso, ha pubblicato Bangkok (Adelphi, 2009), cambiandomi la vita. Negli Stati Uniti, dove vivevo, quel libro era visto come un romanzo da niente. Calasso invece lo ha pubblicato con una grande serietà, dicendomi delle cose sulla scrittura, sull’editoria che hanno modificato il mio sguardo su tante cose. È stato lui a dirmi che una carriera da scrittore, per me, era possibile, consigliarmi di lasciare il giornalismo, dedicarmi alla narrativa.

Un ricordo legato a Calasso?
Il tour italiano di Bangkok, nel 2009. È stato meraviglioso non solo perché ho potuto girare l’Italia con lui, ma anche perché Roberto mi ha fatto sentire uno scrittore vero per la primissima volta. Quell’anno ho partecipato al festival di Pordenone: stupendo! C’erano tante persone, tanti giovani, cosa che all’estero non succede; siete fortunati e non lo sapete, i festival nel resto del mondo non funzionano. Perciò da anni penso di trasferirmi in Italia.

Un posto in particolare?
Il sud, forse la Calabria.

Passiamo a Java Road. Perché Hong Kong?
È una città che ho frequentato molto, che conosco, e gli scontri avvenuti pochi anni fa con il governo cinese mi sembrava non fossero stati raccontati bene.

Lei c’era?
Sì, in quegli anni è cambiato tutto, lì: la crisi scoppiata tra i due sistemi attorno cui gravitava la città, quello d’Occidente e quello cinese, è esplosa in maniera violentissima. Non avevo mai visto niente del genere.

Che impressione ha di quel che è successo?
Innanzitutto, che Xi Jinping sia ossessionato da Hong Kong; il padre ne fu il governatore e chissà che non dipenda da questo. E poi che il partito comunista abbia un rapporto strano con quel posto: in tanti, della classe dirigente cinese, gente ricchissima, hanno gran parte della loro ricchezza lì, e non volevano si creasse quella frattura.

Quindi?
Quindi credo che quel che è successo a Hong Kong sia stato superfluo, e credo sia dipeso soprattutto da Xi Jinping. Alla gente che abita quella città, mi creda, della politica non interessa nulla, a loro importa solo dei soldi, ma al governo cinese questa libertà non piace. In quelle settimane avevo una relazione con una donna di Hong Kong, e mi ha detto: tu non hai idea di chi siano le persone con cui abbiamo a che fare. Ho pensato fosse paranoica, ma quando le proteste sono scoppiate ho capito che aveva ragione: il governo cinese non ha scrupoli.

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Mi racconta?
Andavo alle proteste ogni sera. Erano quasi tutti giovanissimi, a volte le strade si sono riempite anche di due, tre milioni di persone – pensavo ne sarebbe nata una rivoluzione –, e correvano dappertutto, costretti a fuggire dagli agenti che manganellavano come fossero pazzi.

I media riportavano quel che stava accadendo?
No, la gente si informava sui social, soprattutto su Twitter, e penso questo sia l’aspetto importante. I giornali non li seguiva nessuno, a raccontare le proteste erano i ragazzi stessi: si attaccavano una go-pro sulla fronte e postavano live.

Nel libro, il suo protagonista beve vino sulla terrazza dell’appartamento lussuoso di un suo amico ricco e facoltoso. I due parlano, quando sentono i lamenti della gente nei palazzi della città – urla, richieste di aiuto.
È successo davvero. Ero a casa di questo mio amico, un uomo molto ricco, e, dalla terrazza, abbiamo sentito urla, pianti, lamenti di terrore: spaventoso. Le persone venivano spinte dai balconi delle loro case dagli agenti di polizia, se identificate come partecipanti alle proteste, i ragazzi sparivano nel niente.

Jimmy, amico del protagonista, parla di chi protesta e, riferendosi ai più giovani, riflette sulla differenza generazionale.
Noi siamo cresciuti in mondo più solido, la Guerra Fredda era definita dentro confini netti, oggi è tutto confuso. Non vi invidio.

Perché?
Perché avete la sensazione di non avere un futuro, e capisco la ragione, e trovo sia spaventoso. Mi dispiace per voi. Vi è stato boicottato il futuro.

La ragazza con cui Jimmy ha una relazione, una giovane che piglia parte alle proteste, dice qualcosa del genere.
Lei nel romanzo rappresenta proprio questo: il suo è un grido contro un futuro che sente le viene tolto pezzo per pezzo.

Osborne, questa mia ultima domanda la faccio a tutti. Immagini di avere ottant’anni e che sia domenica mattina: dov’è, cosa fa?
Se avrò fatto tanti soldi con il cinema, come spero, sarò in una città sul mare, magari in Giappone, a godermi la mia ricchezza. O magari in Maremma!

Non era la Calabria?
Ho appena cambiato idea.


Java Road (Adelphi 2023, pp. 209, euro 19) è un romanzo di Lawrence Osborne

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