Questa tradizione religiosa e letteraria resta rigogliosa per tutto il medioevo per estendersi vitalmente – pur in modo diverso – nell’età moderna e contemporanea
La preghiera è un fenomeno universale. «Tutti gli uomini hanno bisogno degli dèi» afferma un personaggio dell ’Odissea (3,48) che esorta Telemaco – accompagnato dalla dea Atena! – a pregare il dio Poseidone. Basta poi scorrere la Bibbia ebraica per trovare esempi altrettanto antichi di preghiera, che, in continuità, costellano anche il Nuovo Testamento. Diverse sono le circostanze e le formule che variano nelle molteplici tradizioni religiose.
Secondo gli evangelisti Matteo e Marco l’ultima cena è seguita da canti: sono i salmi 113-118, detti dell’Hallel («lode»), che in seguito vengono raggruppati dalla tradizione rabbinica per la Pasqua e altre feste, ma che di certo erano in uso al tempo di Gesù. A confermarlo è negli stessi anni Filone di Alessandria, il più importante autore giudaico-ellenistico, che documenta come la cena pasquale fosse accompagnata da preghiere e inni.
Gli inni
Viene ripreso dall’ebraismo l’uso di scandire la giornata non solo con preghiere ma anche con canti. I cristiani – scrive Plinio il Giovane verso il 113 all’imperatore Traiano – «hanno l’abitudine di riunirsi in un giorno fisso prima che sorga il sole e di recitare tra loro in modo alternato un carme a Cristo come a un dio». Ma la raccomandazione di rivolgersi a Dio «con salmi, inni, canti spirituali» è già nelle lettere paoline agli Efesini e ai Colossesi.
Di che tratta? A chiarirlo, come sempre con nitida efficacia retorica, è Agostino ai suoi fedeli di Ippona, sulla costa mediterranea dell’Africa romana: «Sapete cos’è un inno? È un canto che ha per tema la lode di Dio. Se lodi Dio ma non canti, non dici un inno. Se canti ma non lodi Dio, non dici un inno. Se lodi qualcosa che non pertiene alla lode di Dio, anche se lodi cantando, non dici un inno. L’inno dunque risulta da tre componenti: il canto, la lode, la lode di Dio. La lode di Dio con un cantico si chiama dunque inno».
La spiegazione si giustifica perché al tempo di Agostino, che muore nel 430, nelle chiese d’occidente gli inni erano una novità piuttosto recente, importata dall’oriente. Non a caso il primo che qualche decennio prima si cimenta a comporne è Ilario, vescovo di Poitiers.
Teologo di rilievo, per la sua opposizione all’arianesimo – corrente che negava la piena divinità di Cristo – era stato esiliato in oriente dal figlio di Costantino, l’imperatore Costanzo II, che sosteneva invece la parte ariana, e da lì aveva cercato di introdurre questo uso in patria, una volta tornato dall’esilio.
Ma gli inni di Ilario, troppo difficili, non attecchirono, fa capire il pur raffinato Girolamo. La forma di questi primi componimenti – utilizzati come in oriente per la propaganda antiariana – era infatti «estremamente elaborata, fino alla complicazione e all’oscurità, in ossequio alle tendenze della poesia pagana dell’epoca» ha osservato Manlio Simonetti, che ha studiato l’innologia popolare cristiana antica. Di conseguenza si sono presto perduti, e solo pochi brani sono stati ritrovati nel 1885 in un codice medievale di Arezzo.
Sant’Ambrogio
Ben altro successo hanno invece poco più tardi gli inni di un altro autore, altrettanto colto e soprattutto influente: Ambrogio, l’abile rappresentante imperiale nell’Italia settentrionale che nel 374 viene fatto vescovo di Milano per contrastare gli ariani.
Il contesto in cui nascono i versi ambrosiani è dunque anche in questo caso la controversia teologica e politica che attraversa tutto il IV secolo, perché «occorreva tenere spiritualmente unito e rendere più forte con queste “melodie incantatrici” il popolo inquieto nelle chiese assediate» ha scritto lo storico protestante Hans von Campenhausen.
Il vescovo di Milano è «poeta genuino e originariamente quasi arcaico nell’accordo tra tema e svolgimento, tra forma e contenuto» scrive lo studioso tedesco. E aggiunge che negli inni composti da Ambrogio «per la prima volta il sentimento spirituale dell’antica chiesa latina trova un’espressione adeguata, grande e forte». Grazie a versi perfetti e lineari: «Come le colonne di una vasta e chiara basilica, queste semplici strofe si congiungono in un ritmo serrato, ed esprimono la fede e il sentimento della comunità cattolica».
Del fascino esercitato dagli inni di Ambrogio parla Agostino, che proprio dal vescovo era stato battezzato a Milano la notte di Pasqua del 387. Sepolta la madre Monica e incapace di lacrime, si corica e gli viene in mente l’inno della sera: in quel momento – racconta nelle Confessioni (9,33, tradotte da Gioacchino Chiarini) – si rivolge a Dio con le parole di Ambrogio (Deus creator omnium), «e mi fu dolce piangere “al tuo cospetto” su lei e per lei, su me e per me. E lasciai libere le lacrime, che avevo soffocato, di sgorgare a lor piacimento, stendendole come giaciglio sotto il mio cuore: e in esse trovò pace, poiché lì c’era il tuo orecchio, non quello di un qualsiasi uomo, che avrebbe interpretato sdegnosamente il mio pianto».
Dei diciotto inni attribuiti a sant’Ambrogio, almeno una dozzina sono autentici. Si moltiplicano anche le imitazioni, spesso felici e suggestive. Così questo complesso di brevi testi poetici si diffonde rapidamente in occidente, fino all’Irlanda, grazie all’organizzazione della preghiera monastica in otto momenti della notte e del giorno – che inizia la sera precedente, come nella tradizione ebraica – già dalla metà del VI secolo nella Regola benedettina.
La tradizione
Questa tradizione religiosa e letteraria resta rigogliosa per tutto il medioevo per estendersi vitalmente – pur in modo diverso – nell’età moderna e contemporanea. Non più solo in latino e non soltanto nella tradizione cattolica: dal monaco Caedmon che nel VII secolo compone inni, primo poeta anglosassone, a quelli composti da Lutero, fino agli spiritual afroamericani che già nel 1805 vengono raccolti in una Christian Harmony.
È insomma un continente poco conosciuto quello dei canti liturgici, che per la chiesa latina è svelato in un magnifico volume dei «Millenni» di Einaudi (Inni cristiani d’occidente). A curarlo è stato Federico Giuntoli, che nella Bibbia Einaudi ha tradotto il Pentateuco e ora ha realizzato la prima versione italiana integrale degli inni entrati nella Liturgia horarum iuxta ritum Romanum, quelli cioè del breviario, la preghiera quotidiana scandita nelle diverse ore del giorno secondo il rito romano: dalle Lodi mattutine alla Compieta prima del sonno.
Il testo latino accentato e la puntuale traduzione permettono di assaporare il fascino di queste parole che ritmicamente si addensano e si sciolgono, accompagnate per secoli dalle melodie gregoriane. Sono in tutto ben 296 inni, composti nel corso di un tempo lunghissimo: dall’ultimo ventennio del IV secolo di Ambrogio, appunto, al latino contemporaneo di compositori che sono in parte benedettini italiani, come Anselmo Lentini, monaco di Montecassino, tra i protagonisti della riforma liturgica preparata per decenni da un vasto movimento religioso e culturale fino a sfociare nelle decisioni del concilio Vaticano II.
Distrutti senza ragione
Non fu però indolore la riforma, con aspre polemiche, come sempre accade in un ambito sensibile come quello liturgico: in gran parte a causa di fughe in avanti ed eccessi, in un senso e nell’altro, fino agli strascichi odierni. Soprattutto per quanto riguarda la messa ma anche per la riforma del breviario, sfrondato soprattutto delle modifiche di tenore classicista intervenute nella prima metà del Seicento con Urbano VIII.
A insorgere con clamore su La Nazione e sul Resto del Carlino fu Dino Pieraccioni, un benemerito filologo fiorentino che nel 1971 scrisse che erano stati «sconvolti, anzi distrutti senza ragione, inni millenari, inserendo aggiunte e varianti senza tener conto delle regole elementari della prosodia e della metrica (talvolta della grammatica) latina». La risposta di Lentini fu puntuale e addebitò al grecista di avere trascurato l’esistenza della «versificazione meramente ritmica», ma uscì solo l’anno dopo su una rivista specializzata di scarsissima diffusione.
Resta in ogni caso l’incanto assoluto di non pochi inni, che in due casi sono riecheggiati da Dante. In una solenne parodia risuona all’inizio dell’ultimo canto dell’Inferno quello di Venanzio Fortunato Vexilla regis prodeunt, mentre nell’ottavo canto del Purgatorio è struggente l’evocazione dell’inno che si recita a Compieta: «Te lucis ante sí devotamente le uscío di bocca e con sí dolci note, che fece me a me uscir di mente; e l’altre poi dolcemente e devote seguitar lei per tutto l’inno intero, avendo li occhi a le superne rote».
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