Nelle finali fra Los Angeles e Miami c’è in ballo la gloria di LeBron James, che ha lanciato una guerra al mondo intero per raggiungere l’irraggiungibile Jordan. Ma c’è di più. La stagione segnata dalla pandemia contiene le ferite razziali, lo scontro con la Cina, i soldi, la morte, Netflix e Trump
- La Nba è prima di qualsiasi altra cosa un insieme di storie. Le Finals fra Los Angeles Lakers e Miami Heat arrivano al culmine di una stagione in cui le la lega è stata al centro dello scontro fra Stati Uniti e Cina e delle proteste di Black Lives matter.
- La storia delle storie negli ultimi quindici anni è quella di LeBron James, il prescelto, che ha ingaggiato una guerra sportiva e psicologica con il mondo per raggiungere le vette toccate da Michael Jordan.
- La morte di Kobe Bryant è l’altro evento fondamentale della stagione. Per Los Angeles non c’è solo in ballo la gloria intergenerazionale di LeBron ma anche la celebrazione di uno dei più grandi di sempre, morto troppo presto.
La Nba, come ogni lega sportiva professionistica, è, prima di qualsiasi altra cosa, un insieme di storie. I tifosi di tutto il mondo amano le grandi giocate ma quello che li appassiona davvero sono le vicende dei giocatori e delle squadre, storie raccontate a fondo e con precisione dai media americani senza i deprimenti infingimenti, l’omertà e le formule vuote che circondano da sempre il calcio italiano. La qualità dello storytelling, insomma, fa il paio con quella dei giocatori.
La storia delle storie negli ultimi quindici anni di Nba è stata quella di LeBron James: il prescelto, un giocatore dal talento fisico senza precedenti affiancato a ottime doti tecniche, cresciuto da una madre single nella periferia di Akron (Ohio). Una circostanza questa che è sempre al centro di ogni comunicazione pubblica di James sia esplicitamente (con l’onnipresente hastag #ThekidfromAKRON) sia implicitamente attraverso i modi spesso molti duri con cui si rapporta ai giornalisti di mezzo mondo, come se si trovasse sempre e comunque di fronte a dei privilegiati che dalla vita hanno avuto tutto senza fatica, al contrario di lui.
Il Re di Akron
Insomma nonostante abbia guadagnato in carriera quasi mezzo miliardo di dollari, si ritragga spesso impegnato con gli amici a degustare amaroni di Quintarelli, faccia le vacanze in yacht sulla Costiera amalfitana, LeBron ribadisce costantemente che lui lì non ci sarebbe dovuto essere, tutto il suo mondo e il suo modo di giocare – improntato a una ricerca di una dominanza, anche psicologica, che raggiunge talvolta livelli quasi brutali – sembra derivare da questa unica affermazione fondamentale.
LeBron è il Re (il suo account Instagram è Kingjames), l’uomo che ha trionfato venendo dal nulla, ovvero il più americano degli archetipi narrativi. Contrariamente a Michael Jordan, che viene spesso ricordato per la sua battuta ecumenica «anche i repubblicani comprano le sneakers», LeBron negli anni ha usato la sua figura pubblica per molte battaglie politiche a favore degli afroamericani, arrivando anche a scontrarsi direttamente con il presidente Trump che, citando il vecchio spot della Gatorade, ha detto di preferire Jordan («I like Mike»).
Cestisticamente MJ era e rimane comunque l’unica seria minaccia all’eredità di LeBron perché per la maggior parte delle persone continua a essere l’unico vero Goat (the greatest of all time, il più grande di sempre).
Il punto è che Jordan aveva una sola ossessione: decisamente poco interessato a cambiare il mondo, Michael voleva vincere non solo nel gioco della pallacanestro ma in qualsiasi ambito dell’esistenza. Chi ha visto The Last Dance, il documentario di Netflix la cui unica pecca è la pressoché totale rimozione del grande Toni Kukoc, ha potuto osservare contorni di un’ossessione quasi patologica.
E il punto fondamentale è che Jordan non solo è riuscito a vincere più di frequente rispetto a LeBron (6 pesantissimi titoli contro 3) ma anche con ritmi adatti alla storia perfetta: anni di attesa, la lunga lotta contro un primo grande nemico (i maneschi Detroit Pistons), i primi tre titoli, la morte del padre, il ritiro, il ritorno, altri tre titoli.
Per capire quanto Jordan sia un vincente in una maniera che attinge non solo al talento, all’ossessione, all’impegno ma anche, come inevitabile in ogni grande epopea, a un po’ di fortuna, basti pensare che dopo anni di silenzio quasi totale sulla sua figura The Last Dance sia uscito durante un lockdown che costringeva metà del pianeta a stare a casa davanti ad uno schermo. Alle volte, semplicemente, si nasce per vincere.
LeBron ti vendicherà
LeBron nonostante tutta la sua dominanza cestistica di Finals ne ha perse ben sei, un dato che connota negativamente le sue dieci partecipazioni totali, compresa quella in corso. Oltretutto LeBron ha abbandonato Cleveland, la squadra del suo stato nativo, per andare a vincere due titoli a Miami con una squadra che sembrava a prova di bomba ma con la quale è riuscito comunque anche a perdere altre due finali, salvo poi tornare e vincere un altro titolo (su tre tentativi) proprio in Ohio. Quest’anno il Re è tornato in finale con i Lakers dopo un anno in cui è rimasto fuori dai playoff, cosa che non succedeva dal 2005.
LeBron James era arrivato due anni fa a Los Angeles proprio per chiudere la carriera con (almeno) un altro titolo portando il bilancio a quattro vittorie e sei sconfitte. Dopo aver fallito l’obbiettivo la scorsa stagione, James ha ristrutturato la squadra con il tipico piglio Lebroniano che lo vuole non solo stella ma anche allenatore e general manager de facto delle franchigie a cui fa dono dei suoi talenti per la contropartita di 37 milioni di dollari a stagione. Famosi sono i cori dei tifosi avversari «LeBron’s gonna trade you» (LeBron ti venderà) diretto ai compagni di squadra sgraditi al Re.
James ha perciò imbarcato una manciata di veterani in cerca, come lui, dell’ultimo titolo della carriera e disposti, al contrario di lui, a guadagnare meno di quanto avrebbero potuto.
Soprattutto LeBron è stato uno dei registi dell’operazione che ha sacrificato quasi tutti i giovani dei Lakers per portare a Los Angeles una stella assoluta come Anthony Davis, mossa che ha ipotecato il futuro ma anche reso finalmente competitiva la squadra.
Davis è giocatore talentuosissimo e solido, dotato di una frazione del carisma del Re e forse proprio per questo motivo sua spalla ideale. Durante i playoff gli anziani Lakers di LeBron hanno assistito dalla distanza all’eliminazione di altre squadre giovani e belle come quelle dei due principali pretendenti al trono, entrambi europei: i Dallas Maverick del giovanissimo Luka Doncic, guardia slovena in grado di polverizzare a 21 anni diversi record che LeBron aveva stabilito alla stessa età, e i Milwuakee Bucks del greco Giannis Antetokounmpo, nominato per il secondo anno consecutivo miglior giocatore della lega anche se forse i numeri avrebbero già potuto legittimare la clamorosa assegnazione del titolo a Doncic. Il quale però, statistiche a parte, deve ancora apportare materiale narrativo alla sua storia per poter ricevere la corona.
Storie a spicchi
Il gioco, come detto, è fatto anche, e forse soprattutto, di storie. I rivoli di questi racconti sarebbero infiniti, come quelli in cui sono scomparsi i Los Angeles Clippers – sorta di Atletico Madrid della città californiana – la franchigia sempre perdente rispetto ai Lakers che quest’anno sembrava però favorita non solo rispetto ai Lakers ma anche nella corsa per il titolo e invece si è sciolta contro una squadra anomala e imprevedibile come i Denvers Nuggets del duo serbo-statunitense Jokic-Murray.
Storia nella storia in questa matrioska di linee narrative che è l’Nba, è quella di Golden State, la dinastia capace di esprimere il basket più armonico e bello da vedere degli ultimi decenni e che avrebbe dovuto continuare a dominare il campionato (e LeBron) per i prossimi anni avvenire ma è rimasta ferma un giro per via dell’inaspettato addio di Kevin Durant e dei pesanti infortuni di Steph Curry e Klay Thompson, i due migliori tiratori della lega.
Arzilli vecchietti contro stella anomala
LeBron e i suoi arzilli vecchietti si sono trovati così più facilmente del previsto in finale contro una squadra che pochi avrebbero scommesso potesse superare anche solo il primo turno dei playoff: i Miami Heat, la stessa franchigia con cui James ha vinto i suoi due primi titoli ormai molti anni fa.
Squadra collettivista, con un allenatore come Erik Spoelstra che è in grado di estrarre qualità da giocatori ignorati da tutte le altre franchigie, Miami si affida a una stella anomala circondata da una manciata di buoni giocatori e un paio di outsider assoluti.
La stella è Jimmy Butler, un uomo che ha una storia personale peggiore di quella di LeBron se è vero che non solo il padre lo ha abbandonato ma anche la madre lo ha cacciato di casa quando aveva 13 anni. Butler si è trovato per anni a dormire a casa di chi gli offriva un letto per una nottata o peggio per strada, mangiando regolarmente alla mensa dei poveri, fino al momento in cui non è stato praticamente adottato dalla famiglia di un amico con cui giocava a basket.
La sua carriera non è mai stata semplice, all’età in cui LeBron era già celebrato in tutti gli Stati Uniti come il prescelto, Butler non aveva ricevuto neppure una borsa di studio da un college di prima fila. Accadrà soltanto al suo secondo anno di università ma sarà tutt’altro che la fine delle sue difficoltà. Scelto al draft da Chicago solamente con il numero 30 (LeBron all’inevitabile n.1) chiude il primo anno con 2,5 punti di media a partita (LeBron 20,9).
Sorretto però da un’incredibile etica del lavoro Butler continuerà a crescere fino a diventare un All Star e scontrarsi sia a Minneapolis che a Philadelphia con compagni che non ne condividono il maniacale stakanovismo.
Etichettato per questo come un giocatore problematico e senza un grande futuro, riceve una chiamata da Miami, una franchigia che sta costruendo una squadra votata a un tipo di pallacanestro collettiva abbastanza anomalo nella Nba delle superstar: il roster degli Heat ha giocatori cestisticamente molto intelligenti come lo sloveno Goran Dragic, altri in fase di repentina fioritura come l’americano di origini nigeriane Bam Adebayo e due giovani outsider assoluti – frutto del fiuto di Spoelestra – come Duncan Robinson e Tyler Herro.
Robinson è un cecchino che è arrivato a esordire in Nba solamente a 26 anni d’età perché prima di allora nessun allenatore lo aveva ritenuto degno nonostante le sue percentuali di tiro fuori dal normale. Le triple di Robinson sono risultate decisive nella semifinale contro Boston, così come decisivo nella serie è stato il ventenne Tyler Herro, selezionato solo al tredicesimo posto dell’ultimo draft ma dimostratosi un attaccante capace di geometrie apparentemente impossibili che lo hanno portato a segnare 37 punti in gara 4, circostanza alla quale è seguita un’intervista dove è risultato evidente che è talmente giovane da non essere neppure in grado di farsi per bene la barba.
Insomma Miami è una squadra improbabile ma anche affiatata, motivata e composta da outsider dalle provenienze più svariate, giocatori che un’occasione del genere l’avevano probabilmente pure sognata, ma sempre in silenzio per non risultare ridicoli. Per via del Covid-19 le partite si svolgono senza pubblico e all’interno della bubble dentro Disney World in Florida. Un mondo parallelo sigillato a ogni presenza esterna, al cui interno trovano posto solo giocatori, staff essenziale delle franchigie e personale della lega.
La crisi geopolitica
Il Covid non è stata l’unica crisi che l’Nba ha dovuto affrontare quest’anno, già in pre-season il direttore generale degli Houston Rockets aveva twittato a favore degli studenti che manifestavano ad Hong Kong e la Cina aveva reagito con il suo consueto disprezzo per la libertà d’espressione boicottando la lega cestistica americana sul suo territorio, sospendendo cioè la trasmissione delle partite, comprese le due amichevoli che si stavano per svolgere proprio nel paese asiatico.
La Nba sembrava in primo momento essersi piegata alle richieste della dittatura in nome del fatturato, lo stesso LeBron James aveva rilasciato dichiarazioni dove faceva intendere che sostanzialmente ogni paese farebbe meglio a badare ai fatti propri. Insomma il tipico approccio business first che molte multinazionali occidentali applicano in maniera ben poco lungimirante in Cina. L’evento aveva colpito i commentatori perché la lega era già allora il campionato professionistico americano più coinvolto nelle battaglie per i diritti civili – a partire appunto dal suo Re – evidentemente però non quelle a favore dei cittadini cinesi.
C’era voluto qualche giorno e le proteste del mondo politico statunitense (soprattutto repubblicano) perché l’Nba recuperasse la ragione e ribadisse, seppur ancora blandamente, il diritto dei suoi lavoratori alla libertà d’espressione. Il boicottaggio cinese continua ancora oggi, con danni non facilmente quantificabili ma comunque nell’ordine delle centinaia di milioni di dollari. Mesi dopo, all’esplosione della pandemia, sempre LeBron James aveva escluso che si potesse giocare senza pubblico: «Non me ne frega niente di quello che dicono in Europa».
Pochi giorni dopo il campionato era stato sospeso e successivamente era stata organizzata la bolla per portarlo finalmente a compimento. Senza pubblico. All’avanzare dell’idea della bubble molti giocatori si erano però chiesti se davvero fosse il caso di tornare a giocare considerato tutto quello che stava succedendo negli Stati Uniti: le uccisioni di afroamericani da parte della polizia e le proteste del movimento Black lives matter a cui molti giocatori avevano preso parte direttamente.
Secondo Patrick Beverly, tignoso difensore dei Clippers, a porre fine alla questione sarebbe stata proprio la volontà di LeBron. Se, nonostante il suo attivismo, il Re avesse voluto tornare a giocare, la lega sarebbe tornata in campo.
E il Re, alla soglia dei 36 anni e con il ticchettio dell’orologio a scandire gli ultimi scampoli della sua battaglia per la posterità contro Michael Jordan, voleva tornare a giocare. Il compromesso è stato allora l’apparire della scritta Black lives matter sul parquet (accettata obtorto collo da alcuni proprietari) e sulle tute dei giocatori, assieme ad alcuni messaggi come “Equality”, “Justice” al posto del nome sulle canottiere, una soluzione, quest’ultima, curiosamente ignorata solo da alcune stelle, tra cui lo stesso LeBron.
La morte di Kobe
Altro evento centrale nella stagione è stata la devastante morte di Kobe Bryant, di sua figlia Gianna e di altre 7 persone in un’incidente di elicottero.
The Black Mamba, stella cresciuta fra Rieti e Reggio Emila e in grado di parlare un buon italiano, in campo era stato uno dei giocatori più amati e odiati di sempre ma la sua morte assurda ha messo d’accordo tutto il mondo del basket nel lutto e nella disperazione.
La vittoria del titolo da parte dei Lakers sarebbe un modo degno di celebrane la memoria e i giocatori lo sanno bene: Anthony Davis dopo aver segnato una tripla all’ultimo secondo nella serie contro Denver ha urlato “Kobe” e la squadra gioca una partita di ogni serie con la canottiera nera e gialla Mamba edition.
Per Los Angeles quindi non c’è solo in ballo la gloria intergenerazionale di LeBron ma anche la celebrazione di uno dei più grandi giocatori, un uomo morto decisamente troppo presto. Come detto, l’intera vicenda assume i toni dell’epica. Nelle prime due partite delle Finals i Lakers sono parsi dominanti, soprattutto LeBron ha organizzando l’intero attacco per arrivare ad avere il rookie Herro come difensore primario e lo ha bullizzato con durezza, distruggendone così la sicurezza sull’altro lato del campo, là dove Herro ha il tocco magico.
LeBron ha fatto insomma quello che fa sempre: ha dichiarato una guerra non solo cestistica ma anche psicologica agli Heat e soprattutto agli anelli deboli della sua catena: i non abituati, i giovani che sono rapidamente crollati sotto i colpi della sua dominanza. In gara uno la palla persa come un ragazzino delle medie da un Herro ridotto ormai a uno stato confusionale ha posto fine al buon momento iniziale degli Heat e da lì in poi per una partita e mezzo è stato un lungo e a tratti umiliante dominio gialloviola con in più per Miami la pessima notizia dell’infortunio delle sue stelle numero 2 e 3: Adebayo e Dragic, entrambi assenti nel finale di gara 2 e per tutta gara 3.
La partita nella notte fra domenica e lunedì sembrava quindi l’ultima pratica da archiviare per LeBron per passare così sul 3-0, il risultato della morte da cui nessuno si è mai ripreso, e poi chiudere i conti in gara 4. Gli Heat e soprattutto l’ex homeless Jimmy Butler, l’uomo sottovalutato per tutta la vita, non erano però d’accordo: l’ala ha piazzato una prestazione ai limiti della fantascienza con 40 punti, 11 rimbalzi, 13 assist e ha trovato sostegno inaspettato in alcuni anonimi panchinari. Puro stile Miami.
Sul finale anche i due giovani Robinson e Herro sono usciti dall’annichilimento di una partita giocata ancora sotto tono e hanno finalmente aiutato Butler a chiudere la partita con dei canestri pesantissimi.
LeBron è uscito dal campo con 5 secondi ancora sul cronometro, una mancanza di rispetto che sembra tradire la paura che se Butler continuasse così le cose si farebbero difficili, se in più i due giovani ricominciassero a giocare su livelli accettabili e Adebayo e Dragic tornassero in campo, le cose per i Lakers potrebbero mettersi molto male, molto in fretta.
Questa notte si è giocata gara quattro e i Lakers si sono portati sul 3 a 1 ma non è ancora finita.
LeBron, l’ex ragazzino di Akron abituato ormai da anni al Romenèe-Conti, alla gloria e alle Finals potrebbe ancora trovarsi travolto da questa squadra di semisconosciuti per cui la fame non è un lontano ricordo da hashtag.
Se questo accadesse si tratterebbe di una sconfitta così ignominiosa che non solo non renderebbe giustizia a Kobe nell’anno della sua tragica scomparsa ma chiuderebbe per sempre ogni discussione su chi sia il più grande giocatore di sempre, lasciando Mj sul gradino più alto del podio.
Non è un grande romanzo, lo sport?
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