Un viaggio tra i necrologi e nella vita di chi, in questi mesi, si è trovato a gestire i funerali e la sepoltura delle vittime della pandemia. I protocolli da rispettare e la difficoltà di accompagnare chi ha dovuto vivere il dolore “a distanza”
- Carmelo Passalacqua è andato in pensione a gennaio, ma nei mesi a seguire ha continuato a stare al fianco dei suoi ex operatori. Degli eventi di marzo ricorda come abbiano rappresentato un trauma anche per loro.
- Marilidia spiega che una richiesta che ricevono spesso è quella di poter vedere le salme, non solo per un ultimo saluto, ma anche per il riconoscimento: «hanno il terrore che non siano loro, ma purtroppo non possiamo aiutarli».
- Altro problema di grande concretezza sono i riti diversi da quello cattolico: «Per una comunità così unita come quella ebraica il rituale di passaggio negato è una ferita».
Vivo in un’area rurale, a volte vado dagli sparuti vicini di casa – tutti accumulatori – a chiedere in prestito vecchi e nuovi numeri di giornali locali. Non spiego loro che li cerco per i necrologi. Conoscendo la natura riservata e vagamente gotica del profondo Veneto non credo, in ogni caso, che farebbero una piega.
Li sfoglio per vedere cosa c’è scritto tra le righe. Lo faccio così a lungo che a un certo punto leggendo i titoli “Scopri la crioterapia” e “Urne preoccupanti” penso a tutt’altro che a trattamenti estetici ed elezioni statunitensi. Sul pavimento si accumulano Tribune di Treviso, Gazzettini, Corrieri delle Alpi e periodici della diocesi. Mi ricordano Afterlife, serie in streaming su Netflix. Di e con Ricky Gervais, narra il tortuoso percorso nel lutto di un vedovo di mezza età, Tony, che lavora per un giornale locale, the Tambury Gazette, assurdo bestiario sul quale non sfigurerebbero argomenti quali “ladri di castagne, proprietari sul piede di guerra” o “lo scapolo più longevo della provincia”.
Tornando ai necrologi noto che a volte sono sparsi nello spazio dei vivi, tra le notizie; altre se ne stanno raggruppati insieme ad aste giudiziarie, immobili, lavoro, motori, negozi. L’operazione ha una sua logica e, in modo più o meno cosciente, restituisce alla morte il suo posto in un quotidiano fatto anche di ricerca di un impiego, di un usato garantito, di un monolocale. Un’altra cosa facile a notarsi è la differenza tra i necrologi estivi e quelli che si avvicinano all’autunno della seconda ondata: se d’estate ci si spegne “serenamente circondati dall’affetto dei propri cari” in seguito le cose vanno in modo diverso.
Un anno fa stavo parlando del mio ultimo libro, un romanzo sulle pratiche contemporanee del lutto, in una libreria indipendente di Trento. All’evento presenziarono anche Carmelo Passalacqua, allora direttore dei servizi funerari del Comune, e Joseph Tassone, operatore funebre. In un attimo, quella che era una presentazione, si è trasformata in una specie di Death Cafe, uno spazio confortevole per confrontarsi sul tema della morte con dei professionisti del settore. Un anno dopo è a loro, e alla nuova direttrice Marcella Seppi, che mi sono rivolta per capire che cosa è successo negli ultimi mesi tra le righe dei necrologi.
La gestione dei servizi di Trento
La gestione dei servizi di Trento è atipica, in quanto oltre a quello cimiteriale comprende anche un servizio di pompe funebri totalmente pubblico. Carmelo Passalacqua è andato in pensione a gennaio, ma nei mesi a seguire ha continuato a stare al fianco dei suoi ex operatori.
Degli eventi di marzo ricorda come abbiano rappresentato un trauma anche per loro. Ai defunti per Coronavirus non si poteva praticare la vestizione, venivano avvolti in un lenzuolo, disinfettati e portati a cremazione senza cerimoniale. Chi aveva un congiunto degente in una struttura per anziani sa bene che questo ha significato non poter vedere più il proprio caro se non all’interno di un’urna. Passalacqua spiega che «Lavorare in quelle condizioni è stato un grande dolore. Perciò con la Fase 2 abbiamo dedicato una piccola cerimonia alle famiglie dei cremati per direttissima».
L’operatore cimiteriale Joseph Tassone, dal canto suo, dice che ora la situazione è numericamente peggiore rispetto alla prima ondata, ma è anche diventata un’assurda normalità. Il processo è stato graduale, ma il vero cambiamento per lui è arrivato la domenica di marzo in cui gli hanno annunciato la chiusura delle chiese. «Il giorno seguente avevamo già steso un primo protocollo ed eravamo partiti con i funerali all’aperto. Spesso non vi presenziava nessuno perché erano tutti in quarantena, ma in quelle mattine spettrali svolgevamo ugualmente la funzione ridotta, procedendo da soli in corteo dalle camere al sagrato, e se veniva chiesto facevamo delle foto da inviare ai parenti. Che si trattasse di reggere acquasantiere o improvvisarsi cerimonieri laici, abbiamo fatto tutto il possibile».
I protocolli valgono per tutti, così i musulmani si vedono negato il lavaggio rituale, la sepoltura entro le ventiquattro ore dal decesso e le altre pratiche previste dall’Islam:«questo è il primo cimitero in Trentino ad avere un campo islamico e da anni abbiamo stretto una convenzione con la comunità, che ci permette di raggiungere i compromessi necessari anche in questo periodo terribile».
Per Joseph uno dei momenti più duri è stato l’11 aprile, Sabato Santo e giorno in cui ha compiuto quarant’anni. Uscivano le circolari della protezione civile sul trattamento delle salme, a metà marzo avevano sfilato i carri militari con le bare di Bergamo e le domande si moltiplicavano. «È arrivato un giornalista, si è seduto e mi ha testualmente detto di volere una foto macabra. Il mio retropensiero è stato proporgli di farsi un selfie, ma ho preferito spiegare con chiarezza che, aiutati anche dai numeri e dalla fortuna, avevamo spazi adeguati e dignitosi. Gli ho fatto un disegno delle nostre camere mortuarie con lo schema di dove e come erano collocate le salme. Se n’è andato dicendo che come giornalista era deluso, ma come cittadino era contento».
Marcella Seppi, invece, è arrivata a marzo, e non conosce altro comparto funerario al di fuori di quello in tempo di pandemia. Prese le redini dei servizi funerari dopo la pensione di Passalacqua, questa era la sua prima esperienza nel settore. «È stato difficile soprattutto vedere l’angoscia del personale. Il lato umano persiste, ma i miei operatori devono anche farsi una grande forza per seguire i protocolli in maniera letterale. Abbiamo cercato di fare tutto quello che potevamo, in rari casi anche ritardando i funerali, di modo che le persone uscissero dalla quarantena per poter partecipare. In un momento in cui purtroppo lavoriamo tre volte tanto l’usuale, trovare posto alle salme per una settimana è stata una fatica immane».
Riflettere sulla morte
Il cambiamento dei sistemi di lavoro riguarda sia chi si occupa degli aspetti pratici che di quelli teorici. Maria Angela Gelati, tanatologa, cerimoniere funebre, co-fondatrice e direttrice della rassegna Il Rumore del Lutto, ne è tra i principali testimoni.
Impegnata anche nell’insegnamento, i suoi corsi si sono spostati online, adattandosi rapidamente alle contingenze anche nei contenuti. In collaborazione con la Scuola Superiore per la Funeraria, il suo corso Riti e ritualità in emergenza è pensato proprio per questi tempi. «Il corso vuole formare tutti i partecipanti, che non sono solo operatori, su come onorare chi è venuto a mancare in un periodo in cui è stata ampiamente evidenziata l’impossibilità di assistere i propri cari durante la malattia e l’inattuabilità dell’addio consueto e desiderato. Parlando di Death Education la tecnologia è fondamentale e ha il duplice compito di amplificare al meglio la presenza visiva della morte, e di renderla meno insopportabile (pensiamo alle video-chiamate tra i malati e i congiunti)».
Gelati spiega che il settore è riuscito a riorganizzarsi. «La presenza dell’operatore è sempre più significativa in alcune fasi del percorso rituale, anche grazie alla scelta di utilizzare oggetti-simbolo, scritture, musiche e silenzi».
Riflettere sulla morte può non essere la più gioviale delle pratiche, ma a volte lascia spazio a esiti sorprendenti. Di recente ho pensato che se dovessi scegliere dei feticci che mi rappresentino, tra i molti, forse comparirebbe anche la sigla di Un posto al sole. La celebre soap opera italiana ambientata a Napoli ha, durante il lockdown, subìto il suo primo fermo delle riprese in ventiquattro anni. Al ritorno sugli schermi gli sceneggiatori hanno stabilito di non trattare la pandemia, per lasciare agli spettatori almeno un angolo di decompressione. Un unicum, nel suo universo narrativo in genere molto aderente all’attualità.
Così i necrologi estivi mi parevano voler gestire l’ultimo saluto lasciando il virus alla cronaca e prediligendo la tenerezza del ricordo (“padre giusto, indimenticato maestro di calcio”, “nonna e bisnonna deliziosa”), salvo poi farci intravedere il cambiamento nell’accumularsi di dediche al personale medico: “un particolare ringraziamento ai primari e a tutto il personale”, “non fiori ma offerte per la ricerca contro la distrofia muscolare/ contro il cancro/contro la leucemia/per le cure palliative”, “si ringraziano coloro che vorranno sostenere la lotta contro l'emergenza sanitaria”, “con affetto ai medici della terapia intensiva che non hanno mai smesso di lottare”. E che le cose sono effettivamente cambiate, lo sa bene chi nella seconda ondata sta subendo colpi peggiori rispetto alla prima, come la regione Campania.
L’impresa Bellomunno a Napoli
Ho appreso dell’esistenza delle Imprese Funebri Bellomunno grazie a una puntata del programma Rai3 Tutto su mia madre. Il figlio della signora Marilidia raccontava di quando la madre andava a prenderlo a scuola con il carro funebre e questo, va da sé, non poteva che incuriosirmi.
L’Impresa Bellomunno opera nel centro di Napoli dal 1820 e oggi è gestita da Marilidia e dal nipote Fabio. «A marzo i primi giorni erano inverosimili. Qui la mortalità era bassa, ma la città era vuota» mi raccontano nella nostra lunga videochiamata da un capo all’altro dell’Italia.
La preoccupazione vera, dicono, è arrivata quando hanno iniziato a morire i genitori degli amici. Fabio spiega che nel loro lavoro sono abituati a offrire un sorriso e una spalla su cui piangere, ma a quel punto cresceva la diffidenza: «eravamo descritti come monatti untori, figure quasi manzoniane. Non era ancora del tutto chiaro come avvenisse il contagio, le mogli di qualche nostro collaboratore attendevano i mariti sull’uscio per farli spogliare e igienizzarli con la vaporella. I nostri operatori», prosegue, «finito il turno si coprivano di ammoniaca. Io stesso la prima volta che ordinai una pizza a domicilio la presi coi guanti e la misi con tutto il cartone nel forno a duecento gradi, non so neanch’io per fare cosa».
Di marzo, Marilidia ricorda alla perfezione la prima telefonata per un servizio-Covid. «Era un sabato pomeriggio ed ero a casa a fare, come tutti, le pizzette. Mi chiama la moglie di un medico di base deceduto all’ospedale. Lei è a sua volta positiva e i figli sono all’estero. È disperata perché non può vederlo e non può recuperare le sue cose. I nostri collaboratori sono andati tre volte a lasciarle sull’uscio degli effetti personali in un sacchetto, ma non erano mai quelli giusti. Siamo tuttora in contatto, è stato molto brutto».
Fabio commenta «anche la bara è brutta, ma almeno è tangibile. Non è come trovarsi davanti un operatore incappucciato che, suo malgrado, ti lascia due borse: una con l’urna, l’altra con oggetti e documenti. Ci siamo sentiti come corrieri di Bartolini o di Amazon». Per questo il recupero, almeno parziale, del rito funerario è essenziale: «abbiamo svolto funerali che parevano un film di Sorrentino, con il carro nel cortile del palazzo e la gente tutta affacciata ai balconi a pregare, fare videochiamate, dirette, filmati e foto. Stamattina abbiamo fatto un servizio partendo dall’ospedale e, non potendo andare in chiesa, siamo passati sotto la casa del defunto. C’erano persone che lo salutavano per tutto il percorso, con i fiori lungo le strade e alle finestre».
Marilidia spiega che una richiesta che ricevono spesso è quella di poter vedere le salme, non solo per un ultimo saluto, ma anche per il riconoscimento: «hanno il terrore che non siano loro, ma purtroppo non possiamo aiutarli, aprire le sacche chiuse che arrivano dall’ospedale ci è vietato».
Come anche a Trento, come ovunque, altro problema di grande concretezza sono i riti diversi da quello cattolico: «adesso è morta una persona destinata al cimitero ebraico. Gli ebrei hanno un rituale importante che prevede il lavaggio del corpo e che ora non si può fare. Si farà una cerimonia ridotta sulla fossa sepolcrale, consapevoli che per una piccola comunità così unita il rituale di passaggio negato è una ferita».
Nessun lutto è sbagliato
Alla fine di questa ricerca il mio necrologio preferito l’ho trovato su un quotidiano di montagna, recitava: «Ingressi contingentati. Si prega di dare la precedenza ai famigliari, ma è gradita la presenza degli alpini». Poi, spinta dalla curiosità, ho sondato anche testate nazionali come il Corriere della Sera, ed è stato come fare un viaggio dalla campagna alla città. I necrologi locali citano Marco Masini, Eros Ramazzotti e non di rado si cimentano in componimenti poetici. Quelli blasonati mi fanno drizzare la schiena sulla sedia e assumere un atteggiamento più composto: «Lo salutano l’Avvocato, il Cavaliere e il Rotary Club».
Per quanto cerchi tra i riquadri trovo molti titoli professionali e pochi ricordi, ma nessun lutto è sbagliato, nessuna pratica è migliore o peggiore perché, da Trento a Napoli, dalla campagna alla città, dalla povertà alla ricchezza, risponde a esigenze del tutto soggettive. Chiudendo i giornali ci intravedo questioni mai risolte di classe, di fede e di chissà cos’altro, che continuano a baluginare simili a lumini inesausti, battagliandosi da una testata all’altra come tracce di vita che continua.
© Riproduzione riservata