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Rolling Stone non fu il primo giornale serio di musica. Ma il quindicinale di Wenner rese davvero popolare quell’impasto di giornalismo narrativo, ossessione maschile e controinformazione hippie
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Le riviste musicali sono state la formazione culturale di almeno due generazioni. L’esperienza offerta ai lettori era talmente concentrata e coinvolgente che nessun magazine online avrebbe oggi la capacità di replicarla
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Anche in Italia interi nuclei di lettori intrattenevano un legame musicale con questi bollettini di passioni e linguaggi che arrivavano fin nelle più remote province, molto prima che lo facesse la rete
«Non fargli soltanto domande. Nel ritratto mettici anche i dettagli, le descrizioni», suggerì il fondatore di Rolling Stone Jann Wenner a uno dei suoi primi reporter. Per un’intervista al chitarrista dei Quicksilver Messenger Service gli allungò sulla scrivania un paio di copie del New Yorker, la storica rivista che due anni prima aveva pubblicato In cold blood di Truman Capote, uno degli atti di nascita del New Journalism. Poco più che ventenne in quel 1967 Wenner aveva studiato a Berkeley e collaborato ai giornali di Movimento.
Con l’aiuto dell’esperto critico jazz Ralph J. Gleason, un hipster bianco e già una autorità nel suo campo, raccolse attorno alla nuova testata altri coetanei – Greil Marcus, Dave Marsh, Jon Landau – tutti universitari, appassionati di musica, tutti maschi.
«Wenner rese accettabile per i ragazzi venerare i propri idoli con la stessa passione che ci mettevano le ragazze, ma aggiungendoci una dose di pretesa intellettuale», commenta oggi lo storico inglese Paul Gorman che all’ascesa e caduta della stampa musicale dedica il suo monumentale studio Totally Wired (Thames & Hudson) appena uscito, un racconto dei protagonisti di un capitolo importante della storia del giornalismo e del costume.
Il più popolare
Rolling Stone non fu il primo giornale serio di musica. Prima c’era stato Crawdaddy!, poi Creem. A New York usciva l’organo del folk revival Sing Out! ma anche il giornale per ragazzine 16, in Inghilterra i cosidetti inkies, il jazzofilo Melody Maker e il più giovanilista New Musical Express che erano in edicola da prima della guerra.
Ma il quindicinale di Wenner rese davvero popolare quell’impasto di giornalismo narrativo, ossessione maschile e controinformazione hippie al punto da allevare in casa vere e proprie star come Lester Bangs per la critica, Hunter S. Thompson e Tom Wolfe per il reportage. Forse anche per questo dopo più di cinquant’anni, con centinaia di testate aperte e chiuse nel mezzo, Rolling Stone è l’unica a essere sopravvissuta alla sostanziale cancellazione del mondo delle riviste musicali, sia pure nella doppia forma di mensile di carta (patinata) e online.
Aggiunge Gorman che la spiegazione di questo processo non è da cercarsi soltanto nella rivoluzione digitale: «Il free download, il predominio della critica incolta dei social network, i blog, i tweet», cioè nelle ragioni della crisi mortale di tutto il vecchio giornalismo, ma anche nella «potenza in calo della stessa musica popolare» intesa come «luogo dell’espressione di sé e della disseminazione delle idee d’avanguardia verso un pubblico di massa».
Un atto di fede
Le riviste musicali sono state uno dei segreti meglio custoditi nella formazione culturale di almeno due generazioni di appassionati: quella dei boomer hippie e quella post-punk emersa dalla rottura estetica di fine anni Settanta. In entrambi i casi, l’esperienza offerta ai lettori era talmente concentrata e coinvolgente – ha ricordato Simon Reynolds, ex redattore al Melody Maker – che nessun magazine online sia pure ben scritto e informato avrebbe oggi la capacità di replicarla. Quasi un atto di fede. Negli anni Settanta il settimanale inglese New Musical Express offriva le firme di due star come Charles Shaar Murray e Nick Kent, non solo di scrittura. Kent – ricorda Gorman – portava «pantaloni di pelle, mascara, tacchi altissimi, era influenzato da Tom Wolfe e Truman Capote, drogatissimo». Seguiva i Rolling Stones e Bowie, sosteneva il rock decadente dell’epoca contro il rock progressive, bazzicò i primi Sex Pistols e l’inizio del punk. Si racconta che prima di un’intervista Brian Wilson gli disse: «Sei molto più rockstar tu di me!».
Shaar Murray veniva dalla stampa underground, aveva un grande afro di capelli sulla testa, scrisse uno splendido libro su Jimi Hendrix e il noto annuncio col quale nel 1976 la rivista cercava «giovani pistoleri», ragazzini ai quali affidare il racconto del nascente movimento punk. Arrivarono così tra gli altri Paul Morley e Ian Penman «fatti della stessa materia della musica che amavano»: il postpunk dei Gang of Four e dei Joy Division, capaci di citare con nonchalance Barthes e Derrida, prendere in giro i Grateful Dead, usare riferimenti astrusi e autoreferenziali. Si ripete spesso che la prosa dei pale boys – i ragazzi pallidi li chiamavano – costò al giornale consistenti emorragie di lettori in tempi in cui le tirature si calcolavano in centinaia di migliaia di copie. Ma faceva parte del gioco, tutto sommato.
Inkies
Anche la storica testata dell’Nme, come Rolling Stone, è sopravvissuta all’apocalisse. Ma soltanto online, grazie al gruppo editoriale di Singapore BandLab che l’ha rilevata nel 2019. Spariti tutti gli altri. Per cinquant’anni sia Nme che i concorrenti Melody Maker e Sounds erano stati proprietà di gruppi editoriali inglesi di medie dimensioni: Ipc Media e United Newspaper. Con uffici nel centro di Londra, staff redazionali, pubblicità, tipografi, più di una volta furono coinvolti nelle lunghe contese sindacali di fine anni Settanta.
Si chiamavano inkies perché l’inchiostro sulla carta grassa ti rimaneva tra le mani, la definizione delle foto e dei colori era approssimativa. Cosa importante, avevano una piccola ma importante circolazione internazionale: si trovavano nelle edicole del centro e delle stazioni anche qui da noi, per tutti gli addetti ai lavori rappresentavano una fonte primaria di informazioni nella generale penuria dell’èra preinternet (le altre fonti essendo gli uffici locali delle case discografiche, i rari momenti di incontro coi musicisti in tournée).
È quanto si ricorda, tra l’altro, in Musica di carta: 50 anni di riviste musicali in Italia (Arcana), un libro uscito di recente nel quale il critico Maurizio Inchingoli ricuce una raccolta testimonianze di protagonisti, critici, editori, sull’avventura della nostra stampa musicale. Anche se raramente, quest’ultima sembra aver completamente superato una dimensione artigianale. «Mancando un dignitoso stipendio e un vero lavoro di redazione gomito a gomito non si è mai formata una solida categoria di giornalisti musicali italiani», ricorda Vittore Baroni, uno dei nostri critici di lungo corso più bravi ed eccentrici.
Scrivere la storia
Non che una storia della nostra stampa musicale non sia possibile, anzi. È anche interessante, a partire dal legame sentimentale che interi nuclei di lettori intrattenevano con questi bollettini di passioni e linguaggi che arrivavano fin nelle più remote province, molto prima che lo facesse la rete. I fasti del parrocchiale ultrageneralista Ciao 2001, le esperienze di Muzak, Gong, Musica 80 a rappresentare l’irrepetibile fermento creativo degli anni Settanta nel nostro paese, l’incontro/scontro tra musica e politica, tirature oggi stratosferiche. Poi, dopo il diluvio punk, la new wave di Rockerilla, il tradizionalismo del Mucchio Selvaggio, il filoamericano Rumore e il filoinglese Velvet, più vicino a noi la raffinata ossessione storiografica di Blow Up. Alcuni di queste testate continuano a sopravvivere ancora oggi nelle edicole che malinconicamente si svuotano di tutto, nonostante le tirature siano davvero esigue e senza aver neppure provato (anzi avendo a volte esplicitamente evitato) il confronto con l’editoria online.
Paul Gorman aveva iniziato il suo lavoro di ricerca vent’anni fa proprio con una storia orale del giornalismo musicale inglese (In their own write: Adventures on the musical press). Nello sviluppo delle riviste musicali, soprattutto tra gli anni Ottanta e Novanta, c’erano spinte di grande interesse, che indicano le linee per tutte le future ricerche.
Una per tutte la questione di genere, il passaggio dalla sostanziale prevalenza dello sguardo maschile nel racconto del rock tradizionale allo sguardo femminile capace di raccontare anche le avventure più profonde della cultura pop, senza alcun imbarazzo. Caroline Coon, una delle prime ragazze a firmare sul New Musical Express, andava pazza per «il lato camp del pop»; Sheryl Garratt già reporter e poi direttrice di The Face, la cosiddetta Bibbia dello stile, un mix allora inedito di musica, moda, arte, coolness, era un fan dei Bay City Rollers.
Interessante a questo proposito la scelta delle edizioni Sur di mandare in libreria una raccolta delle interviste e dei numeri migliori della piccola rivista musicale Puncture, molto esotica per noi, piccolo breviario del rock indipendente nata tra San Francisco e Portland, fondata alla fine degli anni Ottanta da due ragazze, Katherine Spielmann e Patty Stirling. Chi ha dimestichezza con il nuovo giornalismo online, musicale e culturale, sa che sono gli sguardi femminili, fluidi, afroamericani e latinx, a comporre un nuovo mosaico di passioni e intensità.
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