Il suo stile immaginifico era già evidente in un libro del 2007 assai singolare: pieno di attacchi alla destra di governo di allora. Nell’ultima pubblicazione sono mutati sia la forma sia i contenuti. Al passato è dedicato soltanto qualche ammiccamento
Sorpresa: Alessandro Giuli, molto tempo prima di diventare il ministro Giuli, parlava già come il ministro Giuli. O meglio, scriveva come lui. Se prendete in mano un libro che Giuli pubblicò nel lontano 2007, Il passo delle oche. L’identità irrisolta dei postfascisti, vi imbattete subito in tirate che non hanno proprio nulla da invidiare a quegli exploit verbali che hanno tanto stupito chi lo ha ascoltato discettare a Venezia, annusando le pagine di un libro, sull’acqua di cui siamo fatti, o in Senato parlare di Hegel e dell’infosfera esacerbando Matteo Renzi.
Quel libro, scritto da un Giuli poco più che trentenne, è un testo singolare ed eccentrico (eccentrico soprattutto rispetto alla linea dell’editore che all’epoca lo pubblicò, nientemeno che Einaudi), ma il contenuto, su cui pure torneremo, è ben poco rispetto alla forma, che indubbiamente merita una considerazione autonoma.
Già a pagina quattro si parla di verificare l’aspetto di «una cittadella conquistata, il volto soddisfatto degli assedianti, gli annali brevi della loro signoria e del loro ritorno all’opposizione». I conquistatori, che sono al contempo gli assedianti di prima, sono i postfascisti del sottotitolo, alla loro prima esperienza di governo, ma questo passa in secondo piano rispetto allo sforzo richiesto per verificare, assieme ai volti, gli annali e la Signoria.
Fini, dal canto suo, «si abbevera alla fonte gergale del neofascismo, alla sorgente delle testimonianze urlate», ma poi «decide di svestirsi del superfluo». Ha bevuto troppo ma si sveste. Anche se uno degli intercalari del libro è «fuori di retorica», forse proprio per la consapevolezza che di retorica ce n’è proprio tanta, la prosa del Passo delle oche è un repertorio di tropi che neanche nel Manuale di Retorica di Bice Mortara Garavelli, un profluvio di figure, tra le quali, come deve, signoreggia la regina dei tropi, la metafora.
Andiamoci piano
Intendiamoci: già Montaigne diceva che si fanno più metafore in un’ora al mercato che in un consesso di letterati, e da Vico in poi sappiamo che la metafora forma il gran corpo delle lingue. Io stesso, nei due capoversi che precedono, ne ho inanellate (altra metafora) parecchie, da ultimo quella della metafora che signoreggia. Ma a scuola si insegna che con le metafore bisogna andarci piano, e soprattutto cercare di evitare di fare metafore sulle metafore, perché poi i conti finiscono per non tornare. Tanto per mostrare che non sbaglia solo Giuli, io l’ho appena fatto quando ho parlato di un libro eccentrico rispetto alla linea Einaudi: non è ben chiaro come si possa essere eccentrici rispetto a una linea, che, a quanto pare, non ha un centro. «Deviante» o «anomalo» sarebbero stati più chiari.
Ora, Giuli non si accontenta mai di una metafora: deve arricchirla, estenderla, complicarla con altre metafore. Paragona l’ego di Fini all’Ego di un rettile, anzi, in forma aggettivale, all’«ego rettilare», che aggredito concentra il sangue negli organi vitali, e già sembra abbastanza, dato che non è facile immaginare un geco con l’ego.
Ma non gli basta: il sangue del rettile, concentrandosi, fa impallidire Fini, il quale quindi non arrossisce, e tuttavia, subito dopo, è scuro di abbronzatura, e allora non capiamo più se ci deve inquietare l’assenza di vergogna o il fatto di essere stato d’inverno a fare immersioni subacquee nei mari del sud, dato che la prima tutto sommato in un politico è qualità biasimevole ma spesso indispensabile, la seconda un passatempo da classe agiata che il politico non dovrebbe sbattere in faccia all’elettore a millequattrocento euro al mese.
Altrove incontriamo un «anticorpo che ristora un’aria mefitica», mentre basterebbe un deodorante; o le «cosce tornite di un pensiero debole» che se ha le cosce tornite tanto debole non è. Già è difficile mettere d’accordo due metafore, figuriamoci quattro o cinque, come «lo spartito scritto sul dorso ricurvo dell’intelligenza incatenata all’ambizione». Con altre figure retoriche ci sono meno pericoli, e si rientra tutto sommato in conflitti di senso padroneggiabili. L’ossimoro, che ha proprio questa funzione, se la cava meglio, e se leggiamo di una «delicatezza aggressiva» non ci perdiamo. Il gusto per l’espressione fiorita, però, prende spesso la mano al Giuli del Passo delle oche, che ama le endiadi («la genesi e lo sviluppo») le paronomasie (aborigeni/aberrigeni – e questa va proprio spiegata perché aberrigeni viene da aberrare) le allitterazioni (il metodo e il merito).
Facile da irridere, e fin troppo irriso con argomenti a buon mercato da parla come magni, questo amore per un linguaggio infiorettato e culto non dovrebbe, mi pare, destare troppo fastidio, ma al massimo curiosità, dato che incarna una specie abbastanza rara al giorno d’oggi, e si distanzia sia da un poncif accademico sia da un gergo giornalistico facile. A volerlo nobilitare di un pedigree, fa pensare a certa poesia del Seicento italiano, dalle parti di Giuseppe Artale, ai lirici marinisti tanto fastiditi ed amati da Benedetto Croce.
Da Fini a Meloni, ce n’è per tutti
Ma basta con lo stile, visto che con «fastiditi ed amati» sto cominciando a fare il verso a Giuli. Passando ai contenuti, non si può dire che le sorprese, anche se meno roboanti, non manchino. Il tema è la classe dirigente finiana (siamo nel 2007 tre anni prima della «cacciata» di Fini da parte di Berlusconi), e davvero ce n’è per tutti. Prima di tutto per il capo, anzi il «capobranco» cioè per Fini medesimo, amletico, «palindromo» cioè più letteralmente ondivago, capace di cambiare idea o di dare l’impressione di farlo su questioni essenziali di diritti civili, come l’omosessualità o la fecondazione assistita. «Parlare di tradimento del fascismo per Fini è verniciare di immensità una piccola furbizia elettorale». Ma poi per tutti gli altri, finiani e non.
Alemanno, allora parecchio in auge prima come ministro e poi come sindaco di Roma, è ambizioso e superbo, e soprattutto è social-statalista. A Storace, all’epoca ex presidente della Regione Lazio e ministro della salute in carica, non viene risparmiato neppure il body shaming: è un solido tarchiato dalle facce tutte uguali. Gasparri e La Russa sono dirigenti a una dimensione. Meloni se la cava, solo per la giovane età, con un profetico «arrembante». Si salva un poco l’allora molto presente Alessandra Mussolini, ma anche a lei tocca il rimprovero di «essere passata dal quasi nulla del fascismo catacombale alla mobilitazione scosciata».
Agli intellettuali di destra non va meglio. Cardini è un ultrà cattolico-abramitico. Veneziani è «stazzonato», virante all’intimismo per problemi familiari (era reduce da una burrascosa separazione dalla moglie). Quando è stato consigliere Rai la cosa più di destra che ha fatto è stato proporre di ribattezzare Rai educational in EducheRAI.
Insomma, si capisce che molti, da destra, non devono aver faticato a lanciarsi contro Giuli per la nomina di Spano a capo di gabinetto, cogliendo al volo l’occasione di seguire Pro Vita nell’accusare il ministro con un lessico che di fiorito non aveva nulla e rispolverava epiteti omofobi che neanche Vannacci.
L’ultimo libro
Se ora apriamo invece il libro più recente di Giuli, Gramsci è vivo. Sillabario per un’egemonia contemporanea, uscito da Rizzoli nella primavera di quest’anno, quando ancora Giuli era direttore del MAXXI di Roma, ci accorgiamo che la musica è molto cambiata, e non solo nello stile. Il tono con i vicini di area è diventato molto più felpato, istituzionale, con attestati di fiducia nel «nuovo corso di Palazzo Chigi», elogi al piano Mattei per l’Africa, e un clima di fraterna amicizia.
Politicamente, si apprezzano alcuni passi avanti rispetto alle idee da cui proveniva il giovane Giuli, notoriamente non proprio specchiate. Nel Passo delle oche il filo conduttore era ancora il fastidio esibito per la versione cattolico-tradizionalista della destra italiana, i «Guelfi di AN», succubi della religione comandata e pronti a già dal dopoguerra a correre in servizio della Democrazia Cristiana.
Contro questa tradizione Giuli si muoveva ancora nel solco del neo-ghibellinismo di Julius Evola, che nel Ventennio non aveva digerito i Patti lateranensi e aveva guardato alla Germania hitleriana e al paganesimo antico, teorizzando l’imperialismo romano, «la potenza augustea, solare e pagana».
Nel Gramsci redivivo non è che manchi del tutto qualche ammiccamento al passato. Si cita subito Giuseppe Bottai, che passa per il fascista più presentabile ma era anche uno dei peggiori antisemiti, ma d’altra parte è tutto un inneggiare ai valori della Costituzione, «perimetro invalicabile», prendere le distanze dalle violenze contro i migranti e dai deliri razzisti, ripetere le parole di Mattarella, lodare Piero Calamandrei e il filosofo del dialogo Guido Calogero. Giuli si dichiara a favore di una destra «illuminista» che neutralizzi ogni volontà di recidivare [nel fascismo], mette in guardia dalle «pulsioni autoritarie tese a minacciare la divisione dei poteri», si proclama liberale.
Tutti buoni propositi, per carità. Ma quando invoca «protezione per tutte le identità di genere, minacciate da violenze e discriminazioni» visto come sono andate le cose con Spano, c’è da pensare che anche se lui ci crede davvero per noi è difficile credere davvero che glielo faranno fare.
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