A più di quarant’anni dalla chiusura dei manicomi, il contenimento è ancora perfettamente legale e praticato. Ora un libro ne promuove l’utilizzo, contribuendo a diffondere una visione contraffatta della psichiatria
- Franco Basaglia nel 1978, al termine di un’impresa collettiva e ventennale, chiude i manicomi, i luoghi del sorvegliare e del punire. Ma l’arte di legare le persone continua a esistere, e soprattutto a sedurre.
- Quell’arte, per legge, non fu mai eliminata. Si dirà che è stato un errore, perché è in lei che si sostanzia il manicomio.
- Oggi in Italia ci sono 323 (più o meno) servizi psichiatrici di diagnosi e cura. Otto su dieci Spdc in Italia sono chiusi e attrezzati con strumenti repressivi. Ci sono quelli come Paolo Milone che si specializzano nell’arte di legare, e quelli che si specializzano nell’arte di slegare.
Franco Basaglia nel 1978, al termine di un’impresa collettiva e ventennale, chiude i manicomi, i luoghi del sorvegliare e del punire. Ma l’arte di legare le persone continua a esistere, e soprattutto a sedurre. Quell’arte, per legge, non fu mai eliminata. Si dirà che è stato un errore, perché è in lei che si sostanzia il manicomio. Ma è importante ricordare che con l’approvazione della 180, legge frutto di compromessi fisiologici dell’epoca, si stava compiendo il primo passo di un percorso di democratizzazione della psichiatria, che negli anni avrebbe dovuto svilupparsi ma che ha finito per essere ostaggio di una battaglia di retroguardia tutt’ora in atto.
Chiusi a chiave
Oggi in Italia ci sono 323 (più o meno) servizi psichiatrici di diagnosi e cura. L’Spdc doveva essere uno spazio libero e percorribile come lo è un reparto di ortopedia o di gastroenterologia (vi risultano forse chiusi a chiave i reparti di otorino o di cardiologia?). Invece otto su dieci Spdc in Italia sono chiusi e attrezzati con strumenti repressivi. Si tratta di una restaurazione istituzionale accompagnata dai propri cantori.
«Tutte le volte che cammino su questi prati, tocco questi muri, penso: mi piacerebbe vivere qui. Poi mi controllo: è l’ex manicomio di Quarto». Sono le parole di Paolo Milone dal testo L’arte di legare le persone, pubblicato da Einaudi. Una frase apparentemente evocativa, letteraria, che nella seduzione del soggetto parlante cerca la seduzione del lettore, e finisce per esprimere, in sole due righe, un’intima e avvenuta regressione concettuale, politica, culturale. Quando qualcuno si sente libero di palesare questa seduzione, e trova spazio oltre che privato anche pubblico per flirtare con la fascinazione verso la contenzione e l’istituzionalizzazione, siamo di fronte a un problema politico e culturale di dimensioni importanti.
Deve essere chiaro, infatti, che a certe forme di scrittura, a certe fascinazioni narrative ed evocative, corrispondono traduzioni e legittimazioni di determinate prassi: a ogni narcisista narratore come questo corrisponde il ricostituirsi di piccoli o grandi manicomi. Ed è per questo che leggere le parole, scomporre le sintassi, frammentare un discorso, è un’operazione oggi più che mai indispensabile, per leggere radici e prospettive di un pensiero che nel riscontro ampio che sta trovando a livello mediatico, rischia di diventare sempre più dominante. Soprattutto se a dare il via libero definitivo a questo modello è una casa editrice come Einaudi che dalla fine degli anni Sessanta è stata la voce editoriale capace di creare una connessione tra il percorso di de-istituzionalizzazione che Basaglia con la sua équipe conduceva, e un vastissimo pubblico di lettrici e lettori.
Cattive pratiche
Tornando a Milone, non ce ne voglia il nostro interlocutore involontario, ma il suo testo pare davvero un trattato compiuto di malafede contemporanea: si osservi anche solo l’espressione (parafrasata) «noi non abbiamo voluto selezionare i pazienti per il nostro reparto d’urgenza psichiatrica, ma abbiamo deciso di mettere dentro di tutto, dagli alcolisti ai dementi ai tossici». Bastano due righe per tornare al manicomio vero e puro: il contenitore indifferenziato per le varie forme della devianza fatte implodere le une sulle altre. Tutti riferimenti, questi, utilizzati per legittimare l’uso della contenzione. Dando l’illusione che sia l’unica possibilità a fronte di una realtà, quella interna all’Spdc, ingestibile se non in un certo modo. Quando invece vi possiamo assicurare: si tratta solo di cattive pratiche e mala gestione.
Due arti a confronto
Ci sono quelli come Milone che si specializzano nell’arte di legare e quelli che si specializzano nell’arte di slegare. Sono noti i discorsi di quelli come lui e ogni volta che se ne incontra uno il pensiero corre a Francesco Mastrogiovanni, il maestro morto dopo essere stato legato per 87 ore nell’Spdc di Vallo della Lucania, senza cibo né acqua, e fatto annegare nella sua stessa embolia polmonare (si consiglia a tutti la visione del documentario di Costanza Quatriglio 87 Ore sulla vicenda). Ma oltre a Mastrogiovanni sono decine i morti da contenzione che le cronache ogni anno ci riportano (l’ultimo, di pochi giorni fa, all’ospedale di Livorno). A questo punto ci viene da chiedervi: ma voi, che un giorno potreste finire in uno di questi reparti, tra l’arte di legare bene e l’arte di non legare, cosa preferireste?
La complessità
Torniamo a Milone: «Fare un Tso vuol dire irrompere nella casa di qualcuno e trascinarlo di forza in ospedale. Questa è un’operazione militare. Come tutte le operazioni di tipo militare, richiede che nella squadra che parte vi sia conoscenza reciproca, fiducia reciproca e accordo sulla gerarchia».
Di tre battute eccoci alle prese con una lezione di prassi militare. Di psico-polizia. La descrizione di un’azione che non contempla lo spazio dell’ascolto, del dubbio, dell’attesa, della negoziazione. Sapessi quante volte, o lettore, quanti altri psichiatri hanno evitato legamenti solo perché hanno fatto come Valerio, e hanno aspettato. Talvolta anche tutta la notte.
Fatto il Tso alla maniera fascista, continuando nella lettura inciampiamo a un certo punto in uno splendido elenco nosologico di quelli proprio “alla vecchia maniera”: «i depressi usano pantofole. Gli euforici infilano scarpe scalcagnate. Gli schizofrenici scarpe spaiate. I paranoici scarpe buone per scappare. I nevrotici scarpe lucide». Ci troviamo a pié pari in un immaginario culturalmente devastato, che procede per luoghi comuni infarciti di ideologismo e retorica, per cui da un lato il sano è pulito, tosato, coerente e dall’altro il malato è sporco, arruffato, ossimorico e contraddittorio. Quella visione di mondo cioè che decenni di riflessioni e pratiche democratiche hanno cercato di decostruire svelandone le origini reazionarie.
A seguire approdiamo alla storia di Filippo, un paziente che Milone va più o meno a depositare in un cronicario in montagna. Ed è lì che Milone dice «in un posto così io diventerei pazzo in quattro giorni». Soluzione? «Speriamo che Filippo si arrabbi e spacchi tutto, così lo ricoveriamo in reparto 77». Quando dici la progettualità terapeutica. Uguale a Tobino (padre degli psichiatri letterati innamorati del camice, del potere e della casa della contenzione). Si affeziona ai ricoverati, e se li vuol tenere con sé. Una visione di mondo che prevede come unico spazio praticabile non la relazione terapeutica ma il piccolo manicomio che fa sentire tutti a casa, psichiatri compresi. Il libro viene cadenzato con i soliti esercizi di botanica: «i depressi usano l’indicativo passato. Gli euforici l’imperativo. Gli schizofrenici sbagliano tutto. I caratteriali… i nevrotici il condizionale». E ancora: «i depressi non producono rumore… singhiozzi e pianto, non è un depresso, è un isterico… scoprire gli schizofrenici è più difficile». Ci troviamo sempre più intrappolati in un immaginario in fuga dalla complessità della realtà e che, per ordinare il mondo, finisce per tagliarlo a fette come fosse una forma di formaggio. Facendo carta straccia di un secolo di letteratura che attraversa in modo diagonale ambiti del sapere differenti, grazie alla quale disponiamo, oggi, di strumenti per leggere la realtà in modo diverso, restituendole la complessità che le spetta.
Legare
Arriviamo infine al capitolo ottavo, di cui tutto ciò che è stato scritto prima è propedeutico, “Legare le persone” si apre con un referto di guerra: «Ferite di guerra in Sala 77. Quattro fratture costali più il dito di una mano e quello di un piede. Graffi, escoriazioni ed ematomi. Ingiurie, assalti, minacce».
Ecco che nella certificazione dei danni subìti si insinua nel lettore un istinto empatico verso il corpo leso del rappresentante della cura. Un quadro che impedisce a chi legge di avere lo spazio necessario per considerare l’ipotesi che forse, se la storia fosse stata condotta in un altro modo, anche la fine avrebbe potuto essere diversa. Questo dar per scontato il risultato, questo non dare spazio nel racconto al dubbio, alla contrattazione, al confronto, alla negoziazione restituisce al lettore una lettura del mondo contraffatta.
Ma possiamo assicurarvi che ci sono tante e tanti operatori di salute mentale che praticano quotidianamente un’altra forma di cura, e producono un’altra narrazione, e danno vita a un altro possibile mondo, rispondendo in modo diverso alle medesime domande. L’ideologia che pervade tutto il libro è nell’affermazione che segue: «Se mi chiedete un’immagine simbolica della psichiatria d’urgenza è proprio il contenere». Potremmo ribattere, viceversa, che «L’urgenza in psichiatria non esiste». Se hai l’urgenza in testa, e vuoi fare come i chirurghi d’urgenza, e vuoi decidere in due minuti se devi o non devi legare, ecco che leghi. Se ti togli da dentro il cranio l’urgenza, e te la prendi comoda, pure il paziente anche il più agitato, non vogliamo dire che si calmi, ma si mette un po’ più comodo.
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