È una parola che da anni ha preso piede nel lessico italiano come calco dell’inglese narrative. Ma nell’uso del nostro paese si è persa l’idea che la realtà sia qualcosa che va interpretata
Circa vent’anni fa sull’inglese narrative abbiamo calcato “narrazione”. Questo vocabolo ovviamente lo avevamo già e indicava l’azione del narrare una storia. Potremmo addirittura individuare l’anno in cui questo passaggio è avvenuto: era il 2009 e Barack Obama correva per le presidenziali.
Il mondo parlava di lui, un candidato giovane, nato alle Hawaii da madre bianca e padre keniota, che voleva dare un’altra narrative dell’America, proponendone una “visione” diversa. Il suo linguaggio, come la sua presenza e la sua vivacità culturale, era di grande impatto, mescolava reminiscenze personali e analisi psicologiche calandole al meglio nel momento storico che gli si apriva davanti.
In inglese narrative esprime proprio la “soggettiva versione dei fatti” – l’“interpretazione” –, mentre in italiano, nel senso comune, “narrazione” era soltanto la fiction. Pertanto in questa inedita accezione della parola, il racconto oggettivo, la testimonianza, la relazione dell’accaduto perdono importanza a scapito della sola prospettiva personale.
La conseguenza più immediata è che l’ambito letterario ha perso l’esclusività di un termine che indicava soltanto l’atto di creare una storia. Il senso originario resta ovviamente valido, ma l’uso generale di narrazione non riguarda più soltanto la letteratura o la scrittura.
Il nuovo significato si è imposto e diffuso, oltre che in politica, anche nell’informazione. Se si scorrono le occorrenze di narrative nella comunicazione anglosassone emerge chiaramente che il vocabolo delinea una rappresentazione della realtà al fine di sostenere un punto di vista o una tesi. E lo stesso è poi valso per i giornali e le interviste televisive di casa nostra. Chi non ricorda l’uso, anche metalinguistico, che ne hanno fatto Silvio Berlusconi e, in modo ancora più ostentato, Matteo Renzi?
Solo visione
La “narrazione” dei vaccini, delle migrazioni o di una guerra, nel linguaggio della politica e dei media non corrisponde necessariamente al resoconto dell’accaduto. Non siamo più di fronte a una “storia” intesa come testimonianza, o a un “racconto” in cui si dispongono in modo ordinato gli eventi, come vorrebbero le etimologie di queste parole che indicano rispettivamente l’“aver visto coi propri occhi” e l’“esposizione”. La ricognizione dei dati e la descrizione obiettiva di un problema sono secondari o persino assenti.
La narrazione, in politica, diventa subito la visione di chi parla. Ma la visione, si sa, è sempre di là da venire e dunque è proprio il rapporto tra passato e futuro che si inverte. Così l’oggettività ha ceduto il passo alla soggettività rendendo qualsiasi narrazione la proposta di un punto di vista personale col chiaro fine di persuadere chi ascolta. In questo modo, come nota il linguista Vittorio Coletti, anche l’interpretazione viene camuffata.
Ecco forse perché si preferisce chiamarla “narrazione”: per eliminare ogni riferimento all’interpretazione, che nasce sempre da un documento o da un fatto che l’“interprete” – letteralmente un sensale, un mediatore tra il testo e i suoi significati – studia e interroga per proporne una lettura plausibile.
È per questo, rileva sempre Coletti, che l’interpretazione può essere corretta o scorretta, chiara o fuorviante, mentre la narrazione soltanto bella o brutta, efficace o meno. Del resto, la narrazione si basa su altri ingredienti: il racconto di sé, l’immaginazione del futuro, la fiducia in determinati valori, prediligendo l’affabulazione e un linguaggio emotivo che sostituisce le serrate argomentazioni logico-razionali.
Una politica di storytelling
Senza dati si può certamente inventare e apprezzare una storia, ma non ci si può formare un’opinione critica. E la politica, quando prescinde dall’informare e passa direttamente a persuadere, crea tifoserie e fazioni, non cittadini. Non incentiva alla partecipazione costruttiva. Lo constatiamo ogni volta che una questione problematica (la Tav, i vaccini, ecc.) viene usata per la propaganda prima ancora di acquisirne e dichiararne i contorni oggettivi.
Una politica priva di fatti non può che ricercare affannosamente l’uomo più abile a imbastire una storia; non può che desiderare il comunicatore più accorto, colui che immagina e racconta non le cose come stanno ma come vorrebbe che andassero se a lui verrà permesso di governare.
L’interpretazione autorevole e fondata della complessità del reale sparisce dal dibattito pubblico a vantaggio di meri pareri che si affastellano a ritmi incalzanti. Il pericolo, allora, è che la visione di chi ambisce al comando si imponga non tanto per la forza dell’argomentazione e per il merito della proposta, quanto per l’efficacia del suo storytelling.
Fatti e immaginazione
Paul Auster in una lettera all’amico Jonh Coetzee scrive: «Se la finzione si rivela reale dovremo ripensare la nostra definizione di realtà». Credo che questa affermazione sia l’essenza stessa della letteratura, che immagina altri mondi contando sulla sospensione del giudizio del lettore, e li immagina al fine di illuminare di senso l’unico in cui ci tocca vivere. Ma se il lettore deve sospendere il giudizio quando si immerge nelle pagine di un romanzo, il cittadino non dovrebbe mai farlo con i suoi rappresentanti.
Quest’anno è il centenario della morte di Giacomo Matteotti. In un intervento in parlamento, del 31 gennaio 1921, elencava le violenze fasciste e la presenza diffusa di bande armate per le città e i piccoli centri rurali della Bassa Padana.
Provocatoriamente incalzava i colleghi sostenendo che almeno le piccole testate fasciste avevano il coraggio di non occultare questi fatti e, infine, dava la sua interpretazione: «Nelle violenze fasciste non è da vedersi una pura e semplice ritorsione o risposta a singole e occasionali violenze proletarie (…). La verità è che la violenza e l’illegalità in cui si pone quella organizzazione armata, corrispondono, in questo momento, ad una supposto interesse della classe capitalistica. Il problema è tutto qui, onorevoli colleghi!».
Nei momenti migliori della nostra storia è successo che la politica abbia saputo figurarsi un mondo diverso, più giusto ed egualitario, ad esempio. Donne e uomini che, partiti dalla constatazione e dallo studio dei fatti, hanno avuto quel lampo di immaginazione necessario per raccontare una storia coinvolgente o tragica al punto da far credere a chi la ascoltava che valesse la pena partecipare con tutte le energie alla sua realizzazione e al suo cambiamento.
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