…È arrivato l’inverno, con il suo freddo che ti sorprende nello stesso modo ogni anno. Acqua sporca inonda le strade, soffoca le grondaie, asfissia i tombini, senza sosta. Roma ha i suoi equilibri, chi ci vive lo sa: quando i liquami neri invadono le strade, la fanno esistere controvoglia, come vedove a cui restano solo i figli peggiori. La pioggia non mente mai: tira fuori la lordura dei secoli e la riversa per strada. La storia della Capitale è un continuo saccheggio a opera di predoni di ogni specie: dalla borghesia piemontese, dall’aristocrazia papalina del Centro, dal connubio di affari tra periferia e politica, dalle miserie consumate nei palazzoni a forma di rene rigettati dalla terra. Perfino quando i lanzichenecchi l’hanno decimata nel 1527, Roma ha scosso il capo, s’è rialzata, e dei suoi 60 mila abitanti n’erano rimasti appena 20 mila. Non sono i numeri a fare la differenza. A Romolo e Remo è bastato essere in due per ammazzarsi. Eppure, Roma è sempre sopravvissuta, rinvigorita dalle carcasse dei nuovi re. Oggi però qualcosa l’ammazza da dentro: sono i suoi anticorpi, e da quelli non si scappa. Oggi l’orda nera si maschera da agnello…

Carlo strappò di scatto il foglio dalla Lettera 32 per rileggerlo nervosamente sotto il cono secco della lampada d’ottone. L’orologio segnava le 18:43. Erano ore che lavorava, ma non sapeva neanche più a cosa: era un appunto? era un articolo? o era l’abitudine di scrivere per ritrovare dietro i simboli d’inchiostro un passaggio che gli facesse rivedere un po’ di luce, riconoscere lo scatto che sentiva ma non vedeva? No. Qualcosa si era rotto. Scrivere non gli dava più chiarezza, e invece i pensieri si intorbidivano ancora di più.

“’Fanculo”, si disse, afferrando il cappotto e precipitandosi fuori casa.

Dopo qualche giro a vuoto trovò l’Alfetta di sua madre. Mentre usciva dal parcheggio il sudore lo titillava scendendo lungo la schiena e brividi dolorosi gli raschiavano muscoli e ossa. San Basilio, Campo de’ Fiori, Centocelle: aveva varie zone in cui tentare la fortuna, e un semaforo rosso gli venne in soccorso per dargli un attimo di tempo per decidere. A San Basilio trovare della roba decente era un’impresa, ma avrebbe risolto in cinque minuti, ed era un’ottima ragione per girare verso il Tevere.

La macchina di Carlo però, appena scattato il verde, svoltò nella direzione opposta: a convincerlo era stato il bacio di una canna di metallo sulla nuca e una voce camuffata da un fazzoletto.

“Vai a destra, e non fare scherzi.”

Carlo seguì l’ordine, ma era esasperato dal dover rinunciare a quello schizzo a portata di mano.

“Si può sapere che vuoi?”

“Stai zitto, e gira a destra.”

La calma della voce, il tono chiaramente camuffato, insieme alla pressione insistente della pistola, funzionarono di nuovo. La sagoma invisibile dallo specchietto gli fece imboccare la strada per Monte Mario: una decina di curvoni in salita in mezzo al nulla.

Fintamente concentrato sulla strada, Carlo recuperò un po’ di lucidità. Non voleva finire ammazzato per mano di un’ombra, doveva trovare una via d’uscita.

“Spalanco la portiera e mi metto a correre”, pensò, scartando subito l’idea. Tanto valeva farsi sparare. “Schianto la macchina contro il guardrail.” Ammazzare tutti e due era una soluzione che lo soddisfaceva di più. Ma non ebbe il tempo di premere sull’acceleratore. L’uomo gli disse di imboccare una strada sterrata e dopo una ventina di metri gli disse di fermarsi e spegnere il motore.

“In questi anni ho letto tutto quello che hai pubblicato: non te la cavi male per un romano.”

Carlo aveva già capito, ma quella frase gliene diede la conferma. Nello specchietto retrovisore riconobbe Luca che lo guardava con un’espressione fredda. A parte il fisico un po’ più asciutto e una nota sofferente nello sguardo, non era cambiato. Il loro incontro, il lavoro insieme, quella che sembrava un’amicizia e non lo era, la sua sparizione, la scoperta del tradimento. Come una valanga Carlo fu travolto da ricordi e dolore. Poi di nuovo la rabbia, e il desiderio di bucarsi che ripresero a mordere, facendolo esplodere.

“Figlio di puttana!”

Carlo si lanciò su Luca, cercando di colpirlo con un pugno. Luca gli afferrò il braccio, storcendolo il necessario per interrompere la colluttazione ma senza fagli troppo male. Nello slancio la manica del cappotto di Carlo si era alzata mostrando piccole cicatrici biancastre, insieme ad altre rossastre, circondate da lividi. Nonostante Carlo si divincolasse, Luca tenne il suo braccio scoperto. Le cicatrici gli ricordarono delle foto viste in Francia nel ’72: ragazzi americani, inglesi, francesi, le facce scavate, i corpi martoriati, combaciavano alla perfezione con il viso consumato di Carlo, lo sguardo allo stesso tempo ossessivo e assente, ma vivo.

“Lasciami!”

Dopo aver scalpitato per un po’, Carlo riuscì a liberarsi. Si guardarono negli occhi solo per un istante, perché Carlo abbassò subito i suoi, dove al carico d’odio si era aggiunta l’umiliazione.

“Se sei venuto per ammazzarmi, fallo in fretta.”

“Sono venuto per dirti la verità. Ma non abbiamo molto tempo: c’è qualcuno che ti sta cercando per toglierti di mezzo.”

“Peccato”, sorrise Carlo, cercando di sembrare tranquillo, “sarebbe stato romantico.”

Luca sorrise, ripensando al sarcasmo brutale e lucido di Carlo.

“Il piacere te lo farei volentieri, ma come al solito vedo che ti sei portato avanti. E poi mi servi vivo.”

Carlo si era risistemato la manica della giacca.

“Ah sì? E per quanto?”

“Questo dipende da te”, riprese Luca, “se sei disposto ad aiutarmi.”

Il testo è estratto dal libro “Il figlio peggiore” di Peter D’Angelo e Fabio Valle (Fandango, 2024)

© Riproduzione riservata