Lo ha raccontato meglio di tutti Boudewijn Zenden. Ha un nome da teologo di fine Millequattrocento, quasi Millecinquecento, in realtà era l’ala sinistra del PSV Eindhoven a metà degli anni Novanta, nel Novecento. Era imbattibile in allenamento nelle partitelle di calcio-tennis, quell’esercizio che si fa con i piedi uno contro uno, la rete bassa, la palla da colpire a volte al volo, a volte dopo un rimbalzo solo. Era imbattibile finché in Olanda non arriva dal Brasile un ragazzino di 18 anni con gli incisivi larghi. Ronaldo. Quello là. Giocano una volta e vince lui, la seconda volta ancora lui, la terza volta sempre lui. Così Boudewijn Zenden ci pensa due secondi e filosoficamente annuncia ai compagni di squadra che dal giorno dopo si cambia, le partitelle si giocano in coppia, due contro due. Indovinate chi era all’indomani il suo compagno.

Ronaldo adesso si chiama Netflix, Zenden è il mondo dello sport. Da almeno cinque anni sono entrati in collisione. Quando lo sport ragiona sul suo futuro, sul ricambio generazionale della propria platea e sui prossimi titolari delle carte di credito, vede intorno a sé un panorama cambiato dall’ascesa delle piattaforme. Il ceo del Liverpool, Peter Moore, lo disse a El País nell’autunno del 2019. I suoi avversari non sono più il Chelsea e i Manchester, non soltanto, ecco, i suoi avversari adesso sono Netflix e Fortnite, perché il premio non è più (solo) lo scudetto, ma il tempo libero delle persone, innanzitutto quello dei ragazzi. I clienti di domani.

   È qui che scende in campo Giulio Cesare con il suo consiglio sui nemici-amici. Se non puoi battere Netflix, usalo. Mentre lo sport entrava in lock-down, per due mesi senza più partite di nulla in tutto il mondo, la piattaforma occupava la scena per intero, entrava nel solo posto dove potevamo stare – casa nostra – e adottava gli orfani di gol e canestri facendo uscire The Last Dance. Riempì quel vuoto con scaltrezza, senza l’opportunità del binge-watching – l’abbuffata degli episodi di una serie visti tutti insieme in fila. Quelli di Michael Jordan uscivano uno a settimana, recuperando così l’omerico valore dell’attesa per un gregge in crisi di astinenza. In un mondo dall’atmosfera all’improvviso rarefatta, anche l’entertainment più contemporaneo riscopriva certi meccanismi dimenticati, una modalità di consumo coerente con lo spirito di quei mesi: riprendiamoci le nostre vite. Quella sola puntata a settimana somigliava alla sola partita che in 7 giorni avevamo noi vecchiacci da bambini, mentre ai giovani offriva la chance di desiderare qualcosa in modo nuovo. The Last Dance era il solo evento di sport disponibile e sembrava un evento live.

Netflix faceva così le prove della sua futura egemonia, in parte realizzata, anche in ambito cinematografico. Preparava la sua supremazia sulle sale, svuotate prima dal virus e dopo dalla paura. Ci preparava a guardare con il suo occhio tutto lo sport, quando prima o poi sarebbe tornato. Infatti. Una volta usciti di casa, l’atletica, il tennis, il nuoto, perfino discipline più classiche come il cricket si sono messe in marcia verso nuovi format e verso soluzioni che da là venivano: più drama, più conflitto, più semplificazione.

   Netflix si è proposto come uno straordinario acceleratore di tendenze e come proprietario di un catalogo. Non tanto quello dei titoli in magazzino, ma il catalogo dei suoi spettatori, per giunta dall’età media più bassa rispetto a quelli degli stadi. Se è vero come diceva Peter Moore che bisogna andare a pescare dove stanno i pesci, Netflix ha offerto un ponte verso il lago in cui nuotano le nuove generazioni. Gli sport che ci sono saliti e lo hanno percorso, hanno preso un vantaggio. Ma il ponte non è gratis. Prevede un pedaggio. Gli uomini come Michael Masi conoscono il prezzo. È stato l’arbitro del duello Verstappen-Hamilton all’ultimo GP mondiale del 2020. Tirò troppo la corda per avere lo show. Lo hanno mandato via.

Del resto chi si mette in viaggio, non si porta dietro tutto quello che aveva in casa. Non succede nemmeno con i traslochi. Qualcosa devi lasciarla per sempre. Drive to Survive è stato il ponte dei motori e della Formula 1 verso un nuovo pubblico, per età e per estrazione, perciò la stampa internazionale, in Italia Marco Mensurati su Repubblica sottolineavano la diversità di quell’epilogo in Formula 1, la differenza di Verstappen come incarnazione del Pilota Nuovo.

Ma se Peter Moore si sente in competizione con Netflix, il ceo di Netflix Reed Hastings dice: «Noi siamo in competizione con il sonno». È un processo già esteso, a guardarsi bene attorno. La piccola Beth ha fatto per la diffusione degli scacchi più di Kasparov, Karpov, Spasskij e Fischer messi assieme. La serie La regina degli scacchi ha fatto aumentare del 250% le ricerche su EBay di scatole da gioco. Il numero di persone registrate sulla piattaforma online Chess è cresciuto di cinque volte. La stringa su Google “come si gioca a scacchi” è salita al suo record degli ultimi dieci anni. Nel secondo semestre del 2020 le ore trascorse a guardare partite sui canali Twitch sono state quattro volte il totale del mezzo anno precedente.

    Possono capitare adesso cose strane, come trovare 63 mila persone – il pubblico che va allo stadio per il calcio – a guardare la partita di un dilettante chiamato PogChamps. Era il gioco di Alan Turing e degli scienziati, la cultura pop gli ha messo un altro abito. Era il gioco dei nerd ed è diventato sexy. Era il gioco dei dissidenti politici e lo streaming lo ha portato a tutti. Se la Coca-Cola riuscì a consegnare le Olimpiadi ad Atlanta, Netflix potrebbe fare l’impresa di accompagnare gli scacchi ai Giochi olimpici, magari come disciplina degli e-sports, se davvero i videogame entreranno prima o poi nel programma, come tutto lascia immaginare. Al posto di discipline classiche, la boxe che ha i suoi problemi con le inchieste sulla corruzione delle giurie e una federazione sospesa dal comitato olimpico internazionale, oppure al posto del sollevamento pesi e del pentathlon moderno, lo sport inventato dal barone Pierre De Coubertin in persona. A meno che nel frattempo qualcuno non scriva una bella serie su De Coubertin.


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