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Per quasi tutti gli italiani, a scuola, la porta d’ingresso alla storia della Resistenza è la letteratura.
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Chi legge anche soltanto i principali autori della Resistenza – diciamo: Beppe Fenoglio, Italo Calvino, Cesare Pavese, Giorgio Caproni, Franco Fortini, Romano Bilenchi, Luigi Meneghello, Andrea Zanzotto – ha spesso l’impressione di percorrere un unico ciclo romanzesco, tanto le medesime situazioni ricompaiono nei testi più disparati. Tale uniformità si rivela però presto ingannevole.
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Il testo fa parte dello speciale Dopodomani in uscita sabato 22 aprile.
Tanti bambini, tantissimi, in genere preadolescenti, ma anche più piccoli. L’amarezza del Natale festeggiato lontano da casa: un’altra volta, l’insufficiente conforto dei compagni che patiscono la stessa nostalgia. L’efficacia micidiale dei rastrellamenti tedeschi, quando è solo il caso a decidere della sorte di ciascuno (sul fronte opposto: le imboscate). Il momento supremo della scelta. Il lievito morale delle parole dei pochi veri maestri incontrati sui banchi della scuola. Le uccisioni a freddo, davanti a un muro. E la fame. E il freddo. E il fango.
Chi legge anche soltanto i principali autori della Resistenza – diciamo: Beppe Fenoglio, Italo Calvino, Cesare Pavese, Giorgio Caproni, Franco Fortini, Romano Bilenchi, Luigi Meneghello, Andrea Zanzotto – ha spesso l’impressione di percorrere un unico ciclo romanzesco, tanto le medesime situazioni ricompaiono nei testi più disparati. Tale uniformità si rivela però presto ingannevole.
Lo si vede già con i bambini. Perché così numerosi? Servono ad aggiungere una nota patetica alla storia, come personificazione di tutte le vittime innocenti della guerra? Sono l’allegoria di un paese escluso dalle responsabilità dell’età adulta, sotto la tutela paternalistica del regime fascista e del suo duce? O incarnano piuttosto l’Italia di domani, ansiosa di crescere e di lasciarsi alle spalle i disastri del ventennio?
La risposta varia da libro a libro. Ma il principio è generale, e lo stesso si può dire per esempio di una delle scene madri più care alla letteratura partigiana: la scoperta della morte da parte del protagonista. Sono davvero pochi i romanzi che aggirano questo passaggio decisivo.
Sennonché, appunto, dove nella maggioranza dei casi la crisi è innescata dall’uccisione di un compagno (come in Fenoglio o in Meneghello), altri vacillano invece davanti all’inattesa epifania dei corpi dei nemici (in Pavese) o a un caso particolarmente estremo come la fucilazione di un’avvenente spia fascista colpevole della morte di parecchi partigiani (ne Il labirinto di Caproni). Le somiglianze, insomma, finiscono anche qui per evidenziare soprattutto le differenze. E così pure in tutti gli altri casi.
Narratori-testimoni
Per quasi tutti gli italiani, a scuola, la porta d’ingresso alla storia della Resistenza è la letteratura, e, da qualche tempo, principalmente: Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino e Una questione privata di Fenoglio (con il suo romanticissimo intreccio di amore e morte).
Epica della gioventù, la lotta partigiana parla ai giovani di ottant’anni dopo anzitutto grazie alle parole dei narratori-testimoni che quegli eventi hanno raccontato in presa diretta e “ad alzo zero”, come nessuno studioso di oggi potrebbe fare mai.
Il crepitio inconfondibile di quel mitragliatore inglese. L’odore greve delle stalle. Il piacere di seppellirsi sotto un cumulo di fieno nelle notti più fredde di dicembre. La metamorfosi del bosco appena calano le prime ombre della sera. Nei romanzi e nei testi brevi c’è tutto questo e molto altro ancora. Ma, cosa più importante, ci sono soprattutto i sentimenti e le passioni di quei giorni, come li vissero i ragazzi del ‘43: dalla certezza di stare dalla parte giusta alla paura negli scontri a fuoco, sino alla noia degli interminabili periodi di inerzia tra un’azione armata e l’altra.
L’ethos resistenziale e la complessa microfisica delle bande irregolari sono già tutti lì, come almeno dagli anni Novanta la storiografia non ha mancato di riconoscere, valorizzando la capacità degli scrittori di confrontarsi anche con gli aspetti più controversi della guerra di liberazione, compresi i dissidi tra le diverse formazioni partigiane e le inevitabili vendette personali.
All’indomani degli eventi, romanzi e racconti non avevano taciuto nulla in proposito, e negli ultimi decenni gli storici hanno imparato a mettere a frutto i mille spunti disseminati nei testi letterari proprio per offrire ai lettori un’immagine non edulcorata della lotta partigiana.
Miti personali
Certo, al tempo stesso, è necessario non fidarsi fino in fondo. Anche a prescindere dalle passioni politiche della Guerra fredda e dalle non meno insidiose trappole della memoria (un tema cui Calvino ha dedicato una delle sue prose più belle, Ricordo della battaglia, del 1974), i libri di finzione, se riusciti, non possono che sottrarsi alla logica meramente documentaria della testimonianza. La verità alla quale aspirano poeti e narratori è sempre diversa, più alta, come dimostrano i modelli da loro scelti per dare forma letteraria all’esperienza.
Fenoglio, ne Il libro di Johnny, guarda all’epos civilizzatore di Virgilio e in Una questione privata alla biblica cacciata dall’Eden; Calvino si misura con Ippolito Nievo e con il tempo lungo della fiaba; per La casa in collina Pavese si ispira all’uomo del sottosuolo di Dostoevskij e dialoga con l’Orestea di Eschilo; in Caproni rivivono Enea e Atteone (il cacciatore trasformato in cervo da Artemide e sbranato dai suoi stessi cani).
Deformare, persino mentire, a tali condizioni diventa semplicemente inevitabile. E infatti, alla fine, tutti i maggiori scrittori-partigiani hanno attinto ai ricordi della lotta antifascista anzitutto per mettere a fuoco quelli che nei decenni successivi sarebbero diventati i loro grandi miti personali: la reversibilità delle posizioni e il duello scopico tra cacciato e cacciatore nel Caproni maturo (dove chi spara, finisce sempre per uccidere sé stesso); la scoperta di un heimat più privato e originario, in Zanzotto; la suprema verità delle amicizie, in Bilenchi; lo sguardo obliquo dei bambini, che ha il potere di smascherare le bugie dei grandi, in Calvino; il dubbio amletico dell’intellettuale, paralizzato dalla sua stessa intelligenza, in Fortini; il fallimento dell’educazione scolastica e il senso di inappartenenza alla cultura nazionale, in Meneghello; l’incapacità di attingere alla pienezza della vita, in Pavese.
Il prezzo delle parole
Per i poeti e i romanzieri che hanno combattuto il fascismo con le armi, la lotta partigiana ha coinciso con una doppia chiamata, al tempo stesso civile e letteraria. Tutto, in qualche modo, è cominciato lì. Anche dopo, però, la grande lezione del 1943-1945 non ha smesso di accompagnarli con profitto nella prolungata pace del secondo Novecento.
Nessuno, probabilmente, lo ha spiegato altrettanto bene di Albert Camus (a proposito della Francia, ma qualcosa di simile vale evidentemente anche per l’Italia): «Anche se molti scrittori non hanno fatto molto per la Resistenza, noi diremo, al contrario, che la Resistenza ha fatto molto per loro: ha loro insegnato le prix des mots. Rischiare la propria vita per poco che possa valere, per fare stampare un articolo, una poesia, un dialogo, questo significa apprendere il vero prezzo della parola. In un mestiere in cui la regola è lodare senza conseguenza e insultare impunemente, tutto ciò ha rappresentato un’enorme novità. Lo scrittore, scoprendo improvvisamente che le parole sono pesanti, cariche, è naturalmente portato a impiegarle con misura: è il pericolo a render classico. Ciò è vero al punto che solo quelli che non hanno rischiato nulla hanno abusato della parola».
È questo, senza dubbio, il vero punto decisivo. La Resistenza ha dato alla letteratura italiana assai più che un pugno di indiscutibili capolavori, perché le passioni dei futuri poeti e narratori che attorno al 1940 avevano venti o trent’anni non li hanno lasciati nemmeno dopo, nei lunghi decenni di pace che sarebbero seguiti, come un salutare antidoto – una benefica lezione di massimalismo – contro i mille compromessi, anzitutto estetici, ai quali, prima o poi, chi scrive rischia troppo spesso di piegarsi.
In fondo, se nella storia delle nostre lettere moderne nessuna generazione ha contato quanto quella degli autori nati all’incirca tra il 1915 e il 1930, deve esserci un motivo. Ed è arrivato il momento di riconoscerlo, finalmente, questo motivo: senza ulteriori giri di parole. Come la Costituzione repubblicana, anche la grande poesia e la grande narrativa del secondo Novecento sono nate, adulte, dagli slanci dei venti mesi trascorsi tra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945. Pure questo, soprattutto questo, è stata la letteratura della Resistenza.
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