- Il suo ultimo libro, La festa dell’insignificanza, è del 2013. Il primo, Lo scherzo, uscì a Praga nel 1967. Dopo il successo mondiale de L’insostenibile leggerezza dell’essere (1984), gli si sentì pronunciare questa frase: «Sono in overdose di me stesso».
- Da quel momento, 36 anni fa, Kundera sceglie di non concedere più alcuna dichiarazione ai giornali. Non è il primo a decidere di lasciar parlare solo la sua opera, «Come se l’autore non fosse esistito», secondo la celebre formula di Gustave Flaubert.
- Kundera ha innalzato un monumento al romanzo e ci si è chiuso dentro: «Credo solo di sapere», scriveva, «che il romanzo non può vivere in pace con lo spirito del nostro tempo».
Il suo ultimo libro, La festa dell’insignificanza, è del 2013. Il primo, Lo scherzo, uscì a Praga nel 1967. Lui ha compiuto 92 anni lo scorso aprile. Dal 1985 non compare in pubblico e non rilascia interviste. Dopo il successo mondiale de L’insostenibile leggerezza dell’essere (1984), gli si sentì pronunciare questa frase: «Sono in overdose di me stesso».
Secondo Ariane Chemin, autrice di À la recherche de Milan Kundera (Éditions du sous-sol) una biografia del romanziere ceco naturalizzato francese uscita lo scorso marzo in Francia, lo sfogo sarebbe arrivato appena dopo la sua prima e ultima apparizione ad Apostrophes, il leggendario salotto tv di Bernard Pivot, nel gennaio 1984.
Lasciar parlare l’opera
Il racconto della Chemin, una sorta di caccia al fantasma assistito qua e là dagli sms della moglie dello scrittore, Vera, ripercorre la storia di Milan Kundera, nato nel 1929 a Brno, figlio di un pianista e professore di musica; la gioventù trascorsa sotto il regime comunista post-bellico fino alla Primavera di Praga del 1968 e la conseguente invasione dei carri armati sovietici, il successo del suo primo libro sull’onda di quegli eventi, la repressione politica, la censura sui libri, la decisione di lasciare la Cecoslovacchia nel 1975 su un’utilitaria insieme alla moglie e qualche scatola di libri.
La Francia, dove era già stato pubblicato con successo da Gallimard (aveva vinto il Prix Medicis), lo accoglie, ottiene un incarico all’università di Rennes, dove vivono qualche anno per poi trasferirsi a Parigi. Qui scrive altri romanzi celebri, come Il libro del riso e dell’oblio, fino all’Insostenibile, tutti pubblicati in Italia da Adelphi, che lo proiettano nel ristretto gruppo dei nomi mondiali, insieme a Gabriel Garcia Marquez, Salman Rushdie, Vargas Llosa.
Da quel momento, 36 anni fa, Kundera sceglie di non concedere più alcuna dichiarazione ai giornali. Non è il primo a decidere di lasciar parlare solo la sua opera, «Come se l’autore non fosse esistito», secondo la celebre formula di Gustave Flaubert. Negli Stati Uniti lo ha fatto J. D. Salinger, e più recentemente Thomas Pynchon. Perché?
La risposta si trova nel saggio L’arte del romanzo (1986) dove Kundera vaticina: «È possibile immaginare il futuro», scrive, «senza lotta di classe o senza la psicoanalisi, ma non lo si può immaginare senza l’ascesa irresistibile dei luoghi comuni, i quali, iscritti nei computer, diffusi dai mass media, rischiano di diventare in breve tempo una forza che schiaccerà ogni pensiero originale e individuale…».
Ma la risposta è anche nella sua definizione della parola “kitsch”, concetto che torna di continuo nella sua opera e che, per Kundera, «Designa l’atteggiamento di chi vuole piacere a ogni costo e al maggior numero di persone. Per piacere bisogna confermare quello che tutti vogliono sentir dire, bisogna mettersi al servizio dei luoghi comuni».
Illazioni
C’è però chi ha affermato, specialmente in patria, che la sparizione di Kundera dall’arena dei media sia un calcolo per far calare il silenzio sul suo passato di giovane comunista prima del 1968.
Secondo lo scrittore ceco Ivan Klima, intervistato nel 1990 da Philip Roth (Perché si scrive, Einaudi), l’allergia verso Kundera nel suo paese sarebbe dovuta al fatto di essere stato «Un viziato e ben ricompensato figlio del regime comunista fino al 1968». Il giornale El Pais ha recentemente ricordato l’uscita nella Repubblica Ceca nel 2020 di una biografia di 900 pagine firmata da Jan Novák dove lo si accusa di avere un «passato stalinista» e, nel 1950, a 21 anni, di aver denunciato un collega scrittore poi condannato al carcere, il cosiddetto «affaire Dvoracek».
Ariane Chemin è andata a Praga per verificare queste ipotesi negli archivi (dove peraltro scopre che Kundera e la moglie erano spiati dalla polizia segreta StB come fossero usciti dal film Le vite degli altri) e conclude laconicamente: «Il documento è autentico, e il nome di Kundera compare chiaramente. Ma a che titolo?». Si rivolge allora a Jacques Rupnick, «specialista dell’Europa centrale», che le dice: «Qui non è stato fatto il più elementare lavoro di storico. C’è una sola frase che indica Kundera in quel rapporto di polizia. (…). Se le parole hanno un senso, non la si può definire una denuncia».
Quando, nel 2008, la rivelazione era uscita per la prima volta, la Chemin racconta che a Parigi lo scrittore aveva rotto il silenzio per respingere fermamente le illazioni. All’epoca scesero in sua difesa colleghi come Yasmina Reza, Carlos Fuentes, lo stesso Garcia Marquez. Nel suo libro, la giornalista francese conferma che nel 1975 Kundera e la moglie lasciarono il loro paese con l’avallo del regime, nessuno li fermò, probabilmente perché faceva comodo che lo scrittore ormai celebre (i cui libri erano stati ritirati dal mercato) togliesse il disturbo, e che anche in Francia, poi, rimasero «sotto osservazione». È lo stesso Ivan Klima, nella già citata intervista a Philip Roth, a riconoscere che gli scrittori fuoriusciti dal paese hanno sofferto in patria una specie di «xenofobia»: «I cechi ormai sono piuttosto possessivi nei riguardi delle proprie sofferenze», ha detto. Senza contare il fatto che a un certo punto Kundera ha abbandonato la sua lingua e ha scritto solo in francese.
Lo spirito del romanzo
Guardiamo i suoi libri: la sua implacabile analisi del regime totalitario come «dittatura della trasparenza» e le sue formidabili letture di Kafka e del Processo. Il silenzio non può essere forse un’esigenza tutta letteraria?
Sia ne L’arte del romanzo sia nell’altro geniale saggio I testamenti traditi, emerge chiaramente come Kundera abbia sempre voluto rivendicare il suo ruolo di romanziere rispetto a quello di dissidente ed esiliato politico (nel 1979 gli fu peraltro revocata la cittadinanza ceca, che gli è stata restituita nel 2019).
Per Kundera è sul terreno del romanzo che si gioca tutto, contro la «semplificazione» o ciò che lui chiama «processo di riduzione». Dice: «Lo spirito del romanzo è lo spirito di complessità. Ogni romanzo dice al lettore: “Le cose sono più complicate di quanto tu pensi”». E poi, alludendo ad Anna Karenina, afferma sardonicamente: «Per lo spirito del nostro tempo, o ha ragione Anna o ha ragione Karenin, e la vecchia saggezza di Cervantes, che ci parla della difficoltà di sapere e dell’inafferrabile verità, sembra ingombrante e inutile».
È noto che Kundera considerasse troppo militante la prefazione che il poeta comunista Louis Aragon aveva scritto per Lo scherzo: spostava il fuoco lontano dalla splendida autonomia del romanzo. E scriverà, a proposito di impegno, alludendo all’autore di 1984: «Quello che ci dice Orwell avrebbe potuto essere detto altrettanto bene (anzi, molto meglio) in un saggio o in un pamphlet».
Insomma, Kundera ha innalzato un monumento al romanzo e ci si è chiuso dentro: «Credo solo di sapere», scriveva, «che il romanzo non può vivere in pace con lo spirito del nostro tempo: se vuole continuare a scoprire quello che non è stato scoperto, se vuole “progredire” ancora in quanto romanzo, può farlo solo andando contro il progresso del mondo».
Oggi non è facile spiegare a chi non c’era all’epoca, il peso che ebbe quella sequenza impressionante di capolavori, da Lo scherzo al Valzer degli addii, da Amori ridicoli all’Insostenibile, e i romanzi-saggi a cominciare da L’immortalità; la profonda, tumultuosa impressione nei lettori di cinquanta lingue; l’influenza sulle strutture e i temi formali della teoria letteraria; l’io narrante che con disinvoltura entra ed esce dalla storia e ci pone continuamente domande; il «riso» come grimaldello che scassina tutte le porte, anche quelle della tragedia.
Ha ragione: il romanzo per essere vivo deve essere inattuale e remare contro il progresso (se il progresso è omologazione). Eppure, sono convinto che a qualcuno che sia nato nell’anno di uscita de L’insostenibile leggerezza dell’essere, quei libri piacerebbero un sacco, perché Kundera è stato capace di affrontare temi profondi ed emozionanti con un tono di levità e chiarezza altamente seducenti, nonostante la sua battaglia contro l’imperio del cliché sia, a ben vedere, sempre più ardua.
Il finale del libro della Chemin, suonato su un lungo e vibrante accordo in minore – l’immagine crepuscolare della coppia di vecchietti boemi rassegnati all’esilio parigino – non può però farci scordare quanto Kundera sia ancora oggi uno degli scrittori più attuali che si possano leggere. C’è un lungo passato nella sua vita, è vero, un passato indubbiamente doloroso, ma le sue pagine sprigionano un inebriante afflato di futuro.
Ariane Chemin è autrice del libro À la recherche de Milan Kundera, edito da Éditions du sous-sol e pubblicato in Francia lo scorso marzo
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