Tra assurdità, svarioni e salamelecchi lo scrittore Parente e lo scienziato Vallortigara inneggiano alla scienza e disprezzano gli altri saperi. Ma la scienza non dovrebbe insegnare a parlare solo delle cose che si sanno?
- In Lettere dalla fine del mondo (La nave di Teseo, 2021) uno scrittore, Massimiliano Parente, e uno scienziato, Giorgio Vallortigara, discutono dei massimi problemi, dal senso della vita alla morte dell’universo, passando per l’arte, il sesso, la religione.
- Discutono di filosofia, ma si fanno vanto di non aver letto i filosofi. Con la storia non va meglio: mancano del tutto di senso storico, un adepto della cancel culture avrebbe maggiore sensibilità per il passato.
- Hanno fede solo nella scienza. Ma la scienza non dovrebbe insegnare a parlare delle cose che si conoscono, almeno a studiarle prima di parlarne?
Lo Scrittore (con la maiuscola) la spara subito grossa. Non capisce perché ci ostiniamo a contare gli anni dalla nascita di Cristo, anziché in un altro modo. Contandoli da Cristo paghiamo un tributo a un’impostura, ci accodiamo a una ridicola stupidità, ci sottomettiamo alla falsità della religione. Lo Scienziato (sempre con la maiuscola) però la spara ancora più grossa, perché è entusiasta dell’idea di contare gli anni dalla pubblicazione della Origine della specie di Charles Darwin, dato che dopo quel libro “niente è più lo stesso”.
Ora, riguardo all’insofferenza dello scrittore, essa ci appare lievemente esagerata. Persino Odifreddi la troverebbe eccessiva. Di certo è insensata. Ditemi voi quale persona normale dicendo «Nel 2022 finalmente torneremo a viaggiare!», aggiunge anche solo mentalmente «nel 2022 dopo Cristo». Direi che a Cristo non ci pensa proprio, con buona pace dello scrittore. La proposta di contare gli anni dall’Origine della specie di Darwin, d’altra parte, qualche problema pratico lo crea. Io sono l’ultimo a disconoscere l’importanza del capolavoro del grande naturalista inglese, ma se mi chiedete a bruciapelo «Quando è stata pubblicata la prima edizione dell’Origine della Specie?» un po’ di imbarazzo ce lo avrei. Ho memorizzato che il Darwin Day è il 12 febbraio, e tra l’altro è il giorno della nascita di Darwin e quindi non aiuta, ma almeno si celebra ogni anno. Il 1870? No quella è l’Origine dell’uomo. Il 1860? Ci siamo quasi, il 1859 (dopo Cristo, si intende). Ammetterete che non è il massimo della praticità.
Esistenza negativa
Del resto non ci crede molto neanche lo scienziato, che infatti continua a datare le sue lettere in modo tradizionale, a differenza dello scrittore che subito data le sue lettere al 161, che sarebbe il 2020 (sempre dopo Cristo). Bisogna dire che questa è una storia che si ripete per tutto il libro: è lo scrittore a spararle più grosse, lo scienziato si accoda (il libro è Lettere dalla fine del mondo, lo scrittore è Massimiliano Parente, lo scienziato Giorgio Vallortigara). Evidentemente possiede più buon senso, ma ha ritegno a manifestarlo.
Per esempio Parente afferma, impavido, che «Nessuno scrittore è riuscito a dare una visione negativa dell’esistenza, tranne me», uno statement che potrebbe essere dottamente confutato ricordando Sofocle (“meglio non essere nati”), Leopardi (l’infinita vanità del tutto) o, se amate i contemporanei, Philip Larkin (“esci prima che puoi, non aver figli tuoi”), non proprio un inno alla gioia. Diciamo però che forse basterebbe una pernacchia. E invece lo scienziato si sdilinquisce, cinguetta che «La cosa comincia a farsi interessante», oppure comunica allo scrittore «Ho riflettuto molto sulla seconda parte della tua lettera, dove sollevi il problema dell’esistenza».
E questa è forse la cosa più irritante. Ti puoi atteggiare a Cioran (De L’inconveniente di essere nati), ma allora non puoi riempire il libro di salamelecchi che persino un giovane accademico avrebbe ritegno indirizzare al professore da cui dipende la sua carriera. Lo scrittore scrive allo scienziato «Rivedo le tue conferenze ogni sera, prima di addormentarmi» (complimento maldestro, perché tutti intuiamo che le rivede per addormentarsi); «Quante cose imparo ogni volta che ci scriviamo», addirittura «Trovo bello il tuo cervello». Ma evidentemente allo scienziato non basta, perché deve ricordarci persino che il figlio gli ha detto che era bravissimo a raccontare storie, quando lui era bambino, riconoscimento che notoriamente nessun padre si è visto indirizzare dai propri figli, se solo si è degnato di raccontargli qualche volta Biancaneve.
Novità inaudite
Ora il lettore sarà impaziente di cogliere qualche fiore di questa saggezza sparsa a piene mani. Lo scrittore e lo scienziato, infatti, dicono molto scientificamente quello che gli passa per la testa, a proposito di ogni argomento. Per esempio l’arte. Sulla quale ci attendono rivelazioni strepitose, come questa: che «L’avvento della fotografia ha messo in crisi la pittura, la quale ha reagito volgendosi all’espressione». Una cosa così scontata perfino uno scolaro di liceo avrebbe ritegno a metterla in una ricerca di storia dell’arte. Ma tutto il libro è un fiorire di novità inaudite, per esempio che «Il suicidio è collegato a stati di sofferenza estrema» (e noi che pensavamo che ci si suicidasse per allegria), che «Ogni individuo è unico» e che «La nostra idea di natura è culturale», già, è un’idea.
Oppure parlano del sesso e del rapporto tra i sessi. Qui lo scrittore la spara di nuovo grossa, dicendo che la tendenza a stuprare è innata nel maschio. Lo scienziato non si scandalizza, ma da scienziato la butta sullo scientifico, citando un articolo di una prestigiosa rivista americana che dimostra, dati alla mano, che una larga maggioranza di maschi sarebbe disposta ad avere rapporti sessuali con una donna conosciuta pochi minuti prima. Con tutto il rispetto per la prestigiosa rivista, segnaliamo a Vallortigara che un semplice giro notturno per i viali di periferia di una grande città potrebbe mostrargli che molti uomini sono persino disposti a pagare per questo.
Sui dati di fatto le cose non vanno meglio. Per esempio lo scrittore si presenta come grande esperto di Proust. È così esperto che non ha nemmeno finito di leggere la Recherche, dato che dice che Proust non parla mai della prima guerra mondiale, mentre chiunque abbia letto l’ultimo volume, Il tempo ritrovato, sa che della guerra Proust parla eccome. Non parla di trincee e cannoni (ammetterete che non era il suo genere), ma si dilunga sulla posizione dei paesi neutrali, descrive le vie di Parigi svuotate dal coprifuoco, ricorda il filogermanesimo di Charlus e gli articoli guerrafondai di Norpois. Lo scienziato non batte ciglio, anzi si complimenta con l’appassionato di Proust.
Disdegnare gli umanisti
Si potrebbe dire: va bene, ma lasciamo questi svarioni a chi li ha commessi. Però la questione va oltre, e diventa una cosa seria. Perché da un capo all’altro del libro è tutto un inneggiare alla scienza, alle sue magnifiche sorti, e un disprezzare gli altri saperi. Ma la scienza non dovrebbe insegnare a parlare solo delle cose che si sanno, e a documentarsi su quelle che non si sanno? Ci viene il dubbio, fondato, che questi scrupoli alberghino piuttosto tra i detestati (dallo scrittore, ma anche dallo scienziato) umanisti. I due non fanno altro che porsi interrogativi filosofici, ma si fanno un vanto di ignorare la filosofia. Al punto che lo scienziato attribuisce come grande intuizione a Gino De Dominicis (l’artista) l’idea che per esistere veramente in modo pieno le cose dovrebbero essere eterne: un pensiero che, in forma un po’ più argomentata e profonda, ha attraversato la filosofia da Parmenide a Severino.
Con la storia va addirittura peggio. La mancanza di senso storico della coppia scrittore-scienziato è talmente capillare da risultare imbarazzante. Altrimenti come spiegare l’affermazione che «Nei due millenni precedenti l’Illuminismo non c’è stato nessun avanzamento scientifico»? E al diavolo Galileo, riscriviamo i manuali che collocano la rivoluzione scientifica nel Seicento. Proprio come i più accaniti sostenitori della cancel culture, ma senza le loro ragioni per protestare, i due si ergono a giudici dei grandi uomini del passato, rei di condividere opinioni che noi abbiamo superato, proprio grazie al lavoro di quei grandi. Anche qui, però, gli esempi che scelgono sono quantomeno maldestri.
Lo scienziato si interroga sulle ragioni per cui si crede in Dio, e si chiede stupito come mai pensatori profondi e acuti come Berkeley, Hume e Kant, abbiano potuto aver fede nella sua esistenza. Ora, a parte che ci vorrà un secolo perché Nietzsche possa annunciare la morte di Dio, i tre nomi non potevano essere scelti peggio. Berkeley era un vescovo anglicano irlandese, quindi in Dio ci doveva credere, se non altro, per esigenze professionali. Ma Kant confuta tutte le prove dell’esistenza di Dio (non hanno letto Carducci: «decapitaro Emmanuel Kant iddio, Massimiliano Robespierre il re»), e a molti contemporanei il suo messaggio filosofico sembrò un messaggio disperante, tanto che il poeta Kleist non si riprese più dalla lettura di Kant e finì per suicidarsi. Quanto a Hume, cercò di dare una risposta alla stessa domanda che angustia i nostri due, perché gli uomini credono in Dio, e lo fece proprio ricercando le cause naturali della credenza religiosa, al punto di rischiare l’accusa di ateismo.
Ma è più facile sentirsi superiori, in un colpo solo, a Kant e a Hume, fiduciosi che comunque i lettori non si accorgeranno delle assurdità perché tanto, dicono i due, «Siamo noi a creare il nostro pubblico». No, per pietà, almeno questo no!
© Riproduzione riservata